Arte dei diritti umani, un percorso di civiltà per educare l’umanità di oggi e di domani

di Roberto Malini

Il trittico multimediale Sprich auch du, realizzato da Fabio Patronelli, Dario Picciau e da me, è stato uno dei momenti più significativi della recente rassegna genovese Segrete – Tracce di Memoria. In esposizione dal 23 gennaio al 28 febbraio 2025, quest’opera occupa un territorio di confine tra estetica ed etica, tra la poesia di Paul Celan e la sua eco nel contemporaneo, creando un dialogo profondo e stratificato tra passato e presente. Non si tratta solo di una commemorazione, ma di un’urgenza che interroga ciascuno di noi sulle responsabilità collettive e individuali nella costruzione di una società più giusta.

L’inaugurazione del trittico ha coinvolto profondamente gli studenti di cinque licei genovesi, i quali hanno dimostrato una straordinaria sensibilità ponendo domande non solo sul significato intrinseco dell’opera, ma anche sulle motivazioni che spingono artisti come noi a confrontarsi con temi così intensi e difficili. Alle loro domande non abbiamo replicato con semplici spiegazioni tecniche o narrative; abbiamo cercato, piuttosto, di condividere un’urgenza etica: quella di rispondere, attraverso l’arte, alle ferite aperte della storia e alle ombre che minacciano il nostro presente. Sprich auch du non è solo un omaggio alla poesia e alla figura di Celan, ma una chiamata all’azione, un invito a riflettere sul valore della memoria e sulla fragilità del nostro tempo.

Questa tensione tra vocazione civile e poetica non è nuova nel nostro lavoro. Le nostre opere sono spesso segnate da un impegno che trascende l’estetica, trasformandosi in strumenti di consapevolezza e denuncia. Penso, ad esempio, al Memoriale della Shoah di Fossombrone, che fonde natura e memoria in un unico abbraccio simbolico, o all’installazione Binario 21, che racconta con intimità e universalità la deportazione di Liliana Segre. Lavori come Grüne Rose – in memoria della persecuzione delle persone LGBT+ durante il nazismo – o le mostre fotografiche Capelli d’oro e di cenere e Un diverso Olocausto (che ho realizzato con l’artista e scrittore italoperuviano Steed Gamero) hanno ricordato l’Olocausto delle donne ebree e, ancora, quello di omosessuali e transgender. Sono temi complessi, come la serie Psiche incatenata, che Dario Picciau e io abbiamo presentato nelle sale dell’Archivio storico di Napoli – che ancora le conserva – nel 2008, per contribuire a restituire a una società indifferente il ricordo della persecuzione attuata dai nazisti nei confronti dei disabili psichici, durante l’operazione Aktion T4.

Fabio Patronelli, il cui contributo musicale e grafico alla creazione del Trittico Sprich auch du è stato fondamentale, rappresenta perfettamente questa tensione tra arte e impegno etico. Dopo aver esposto alla Fabbrica del Vapore di Milano i dipinti della serie Mediterraneo, dedicati ai diritti dei migranti e dei profughi, Fabio è oggi al centro di un progetto educativo a Genova, dove alcune classi liceali analizzeranno le opere della sua serie La Flor de la Esperanza. Questi dipinti, ispirati al disastro ambientale e umanitario provocato da Chevron-Texaco in Amazzonia, hanno trovato risonanza anche presso le comunità indigene ecuadoriane, come dimostra l’incontro tra Fabio e l’avvocato Pablo Fajardo, cui l’artista ha donato una delle opere della serie.

Una delle domande che ci hanno posto gli studenti ha ispirato, oltre che una risposta sincera, questo articolo: perché un artista sceglie di avvalersi del suo talento per rappresentare diritti civili e memoria?

La risposta è che l’arte non esprime solo un linguaggio creativo, ma è uno specchio, un grido, un ponte. È un mezzo per affrontare la complessità del reale e per contrastare le ingiustizie. Come ricordano le Nazioni Unite nella Dichiarazione sui Difensori dei Diritti Umani del 1998, coloro che si battono per la giustizia meritano protezione, eppure è nella loro esposizione, nella loro vulnerabilità, che risiede il potere trasformativo del loro impegno.

L’arte che abbiamo creato con Sprich auch du non si sottrae a questa responsabilità. È un’arte che accetta di ferirsi e di lasciarsi ferire dai temi che affronta, trovando in questo rischio la propria efficacia. Il trittico non offre risposte definitive, ma solleva domande che penetrano nello spettatore, lo scuotono, gli chiedono di cambiare. Nella poesia che dà il titolo al nostro trittico, Paul Celan dice al lettore: “Parla anche tu, parla per ultimo”, perché solo nel dialogo e nella riflessione l’arte può trovare il suo senso più profondo, quei “bocconi di silenzio” che rappresentano la sostanza delle parole, il loro valore nutritivo.

Ai giovani che ci chiedono il perché del nostro impegno, rispondiamo che l’arte è un elemento imprescindibile del pensiero umano, una lente privilegiata attraverso cui osservare e interpretare il mondo, ma anche uno strumento potente per prendere posizione. L’arte ha il dono unico di esprimere consenso o dissenso, di illuminare eventi che mettono in pericolo i diritti fondamentali, la sicurezza delle persone e delle comunità. Fin dalle sue origini, essa ha testimoniato le aspirazioni umane alla libertà, alla giustizia e alla dignità, trasformando i bisogni più intimi e le tensioni sociali in linguaggi visivi universali. Le pitture rupestri che adornano le caverne preistoriche, infatti, non erano solo rappresentazioni estetiche, ma veri e propri manifesti del valore del cibo, della terra e del senso di comunità, strumenti attraverso cui l’umanità preistorica cercava di dare ordine e significato all’esperienza collettiva.

Con l’evolversi delle civiltà, l’arte è diventata sempre più lo specchio dei desideri, delle lotte e delle speranze delle società. Nell’antica Grecia, essa celebrava valori come la libertà e la dignità umana, dando particolare rilievo al ruolo della donna, un tema spesso trascurato dalle istituzioni dell’epoca. Nella Roma repubblicana e imperiale, opere monumentali come l’Ara Pacis incarnavano ideali di armonia e concordia sociale, trasformando concetti astratti in simboli tangibili e duraturi, elevando il tacere delle armi a primo valore civile. La stessa universalità si riflette in culture distanti: i dipinti murali della dinastia Han in Cina esaltavano l’armonia e la giustizia sociale, mentre le sculture dei Maya celebravano la fertilità della terra e il legame con la comunità.

Con il Rinascimento, l’arte non solo si fece portavoce di allegorie morali, ma ampliò il proprio orizzonte per includere ammonimenti etici e riflessioni sulla condizione umana. Il San Martino di Vittore Carpaccio, ad esempio, rappresentava un atto di compassione verso i più poveri, rendendo la pietà un valore universale. Allo stesso modo, i dipinti di Michelangelo o il manierismo di El Greco esploravano l’intensità della pietas, rivelando le tensioni e le possibilità insite nelle scelte umane.

Con l’arrivo del Barocco, artisti come Peter Paul Rubens e Antoon van Dyck portarono la tensione morale e spirituale a nuovi livelli. In opere come Le conseguenze della guerra, Rubens denunciava la devastazione bellica con una forza visiva senza pari, mentre van Dyck, attraverso il gioco di luce e ombra, evocava il conflitto tra oppressione e redenzione, catturando un’umanità divisa tra sofferenza e speranza.

L’Illuminismo e le grandi rivoluzioni che lo accompagnarono segnarono un punto di svolta. L’arte, da riflesso della realtà, si trasformò in una forza attiva per il cambiamento sociale. Francisco Goya, con La fucilazione del 3 maggio 1808, immortalò l’orrore della guerra in un’immagine che ancora oggi sconvolge e commuove. Eugène Delacroix, con La Libertà che guida il popolo, creò un’icona delle aspirazioni democratiche, un simbolo che continua a ispirare le battaglie per la libertà.

Nel XX secolo, l’arte affrontò i traumi di un’umanità ferita. Guernica di Pablo Picasso è un grido universale contro la guerra, un monito potente contro il silenzio delle armi, mentre Salvador Dalí, con Il volto della guerra, esplorò le cicatrici lasciate dai conflitti, dando forma alla sofferenza collettiva della civiltà.

Tuttavia, i regimi totalitari del Novecento portarono a nuove forme di censura e persecuzione. Felix Nussbaum immortalò nei suoi dipinti la tragedia degli ebrei d’Europa, mentre Marc Chagall e Jacob Vassover narrarono la ricchezza dell’universo yiddish, destinato a essere spazzato via dallo sterminio nazista. Charlotte Salomon, assassinata ad Auschwitz, creò con Vita? o Teatro? un ciclo straordinario, testimonianza di un’anima che si rifiutava di cedere al buio. Nel ghetto di Terezín artisti come Bedřich Fritta, Leo Haas e Otto Ungar trovarono il modo di trasformare la disperazione in resilienza, regalando alla storia un’eredità di Memoria e di speranza. Nei Nei luoghi di detenzione e nei campi di morte non mancò mai il coraggio di artisti, poeti e musicisti che trasmisero ai posteri testimonianze della loro esperienza e dell’orrore.

Le collezioni di Yad Vashem e di altri musei della Shoah conservano questi reperti unici, reliquie di un mondo quasi completamente distrutto. Tuttavia, ciò che è stato salvato rappresenta solo una frazione del patrimonio perduto. La responsabilità di preservare e tramandare questa memoria ci ricorda quanto sia fondamentale il ruolo dell’arte come custode della storia e come strumento per evitare che tragedie simili possano ripetersi.

Nel corso degli anni, ho avuto il privilegio di identificare e salvare oltre quattrocento opere di artisti assassinati nei campi di sterminio o sopravvissuti alla Shoah. Oggi, queste opere sono conservate fra il Museo Nazionale della Shoah di Roma e la nascente Cittadella di Barletta, dove continueranno a testimoniare il valore della memoria e la forza dell’arte come ponte verso il futuro. Sono frammenti di storie e di vite, ma anche segni di resilienza e di speranza, un invito a ricordare e a non smettere mai di lottare per i valori che definiscono la nostra comune umanità.

Gli artisti dileggiati nella famigerata mostra Entartete Kunst (Arte Degenerata) del 1937, voluta dal regime nazista per screditare e demolire le avanguardie artistiche, sono oggi celebrati come figure fondamentali dell’arte moderna. Quella mostra, concepita per denigrare ogni espressione artistica non conforme all’ideologia del regime, ha paradossalmente finito per confermare il potere rivoluzionario dell’arte come strumento di resistenza culturale e intellettuale. Nomi come Ernst Ludwig Kirchner, Emil Nolde, Wassily Kandinsky e Marc Chagall, etichettati allora come “degenerati”, sono oggi riconosciuti per la loro capacità di sfidare il conformismo, aprendo nuovi orizzonti espressivi. La mostra stessa, da evento diffamatorio, è divenuta un simbolo storico della resilienza artistica di fronte alla censura e alla repressione, trasformandosi in un monumento involontario alla forza dell’arte.

Parallelamente, un altro capitolo significativo della storia artistica e culturale riguarda la voce dei rom e dei sinti, che ha trovato espressione attraverso figure straordinarie come Ceija Stojka. Sopravvissuta al Samudaripen – l’Olocausto dei rom e dei sinti – Ceija ha lasciato al mondo una produzione pittorica e letteraria che non solo testimonia l’orrore di quella persecuzione dimenticata, ma celebra anche la resilienza e la dignità di un popolo. Nei suoi dipinti, caratterizzati da un’intensità cruda e autentica, si fondono l’urgenza della memoria e la celebrazione della vita. Seguendo le sue orme, giovani artisti rom come Rebecca Covaciu continuano a raccontare le tradizioni, le lotte e le sofferenze della loro gente, denunciando con coraggio le ingiustizie e i pregiudizi che ancora oggi gravano su queste comunità, troppo spesso emarginate o addirittura perseguitate.

Il Museo d’arte e cultura rom di Brno, nella Repubblica Ceca, conserva un significativo corpus di opere di Rebecca Covaciu, alcune delle quali realizzate a quattro mani con me. Questa collaborazione, nata dall’impegno condiviso per i diritti dei rom e dei sinti, ha trasformato l’arte in un dialogo profondo tra creazione e attivismo sociale. In parallelo, il movimento Roma Jam Session Art Kollectiv esplora con linguaggi innovativi le sfide contemporanee delle comunità rom e sinta, trasformando l’arte in uno spazio di lotta e riflessione che supera le barriere del silenzio e dell’indifferenza.

Negli Stati Uniti, l’arte ha avuto un ruolo cruciale nel documentare e alimentare le battaglie per i diritti civili. Dai murales del Wall of Respect di Chicago, che celebravano la comunità afroamericana, al Black Arts Movement, gli artisti hanno dato voce a storie spesso ignorate o marginalizzate. Jacob Lawrence, con la sua serie The Migration Series (1940-41), ha trasformato l’epopea della Grande Migrazione afroamericana in una narrazione epica e universale. Allo stesso modo, Faith Ringgold, con The American People Series (1963-67), ha esplorato le tensioni razziali e di genere attraverso un linguaggio visivo potente e diretto.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, l’artista messicana di origini statunitensi Elizabeth Catlett Mora ha unito scultura e incisione per affrontare i temi dei diritti civili, raccontando con sensibilità e forza le lotte delle comunità afroamericana e messicana. Le sue opere, radicate nelle esperienze delle classi oppresse, sono manifesti visivi di giustizia sociale, dove la bellezza non è mai separata dalla denuncia.

Con il movimento Black Lives Matter, l’arte ha ritrovato una nuova urgenza, divenendo strumento di lotta contro il razzismo sistemico e il retaggio della schiavitù. Kara Walker, con i suoi murales e installazioni, ha costruito un linguaggio visivo che provoca e sconvolge, affrontando temi complessi e dolorosi con una profondità disarmante. Jon Henry, nella sua serie fotografica Stranger Fruit (2019), ha rappresentato famiglie nere in pose che evocano lutto e perdita, trasformando ogni immagine in un grido silenzioso contro le ingiustizie subite dalla comunità afroamericana.

Artisti come Kehinde Wiley e Amy Sherald, noti per i loro iconici ritratti presidenziali di Barack e Michelle Obama, hanno contribuito a ridefinire l’identità afroamericana nell’arte contemporanea. Wiley, con i suoi ritratti monumentali e vibranti, restituisce dignità a uomini e donne spesso esclusi dalla grande narrazione storica dell’arte occidentale, mentre Sherald esplora l’identità con una sensibilità intima e profondamente politica.

Questi percorsi, sia negli Stati Uniti che in Europa, dimostrano che l’arte non è mai solo estetica, ma un potente strumento di denuncia e di trasformazione. Essa ha il potere di trasformare la memoria in azione, di dare voce a chi è stato ridotto al silenzio e di ispirare nuove generazioni. Nell’incontro tra impegno etico e linguaggio visivo, l’arte contemporanea continua a dimostrare la sua capacità di resistere, di sfidare e, infine, di cambiare il mondo.

Nel panorama contemporaneo, artisti come Keith Haring, Jean-Michel Basquiat o Banksy hanno saputo trasformare i muri delle città in supporti vibranti di significato, denunciando razzismo, omofobia e disuguaglianze sociali. Le loro opere, collocate negli spazi urbani, parlano direttamente alle comunità, trasmettendo messaggi che scuotono la coscienza collettiva. Joseph Beuys, con la sua celebre affermazione “tutti sono artisti”, ha ridefinito il ruolo dell’arte, non più esclusivo appannaggio di pochi eletti, ma strumento di emancipazione collettiva, capace di mettere in discussione le strutture di potere e di restituire dignità all’individuo e alla collettività.

Anche i popoli indigeni e le culture tradizionali hanno trovato una voce potente nell’arte. Le pitture dei nativi americani e australiani, così come le sculture africane, sono testimonianze vive di una connessione profonda tra terra, spirito e diritti collettivi. In esse si riflettono la saggezza ancestrale e il grido di resistenza contro le violenze storiche e contemporanee, facendo emergere la forza di un patrimonio culturale spesso ignorato.

Attraverso i secoli, l’arte ha ammonito l’umanità a preservare valori universali come pace, uguaglianza e libertà. Dal trittico La guerra (1929-1932) di Otto Dix, che esplora la brutalità e le conseguenze devastanti dei conflitti, ai murales di Kara Walker, che affrontano con potenza il retaggio della schiavitù e del razzismo, ogni opera si configura come un tassello di una narrazione universale che invita all’azione e alla riflessione. L’arte, in questi casi, diventa un manifesto, un testimone e una guida per affrontare le disuguaglianze e i conflitti che ancora oggi segnano la nostra società.

Ma c’è anche un altro tipo di arte, un museo invisibile che vive nelle ombre. È l’arte degli anonimi, dei dimenticati, di chi crea nonostante tutto, spesso in condizioni di estrema precarietà o pericolo. È l’arte dei dissidenti che dipingono sui muri nei paesi dominati da regimi spietati, rischiando la vita per lasciare un messaggio di libertà. È l’arte dei carcerati che trasformano la loro reclusione in un grido silenzioso di resistenza, o dei senzatetto che trovano rifugio sotto i ponti o in edifici abbandonati, trasformando la loro marginalità in una testimonianza visiva. È l’arte delle persone LGBTQ+, che dipingono, scrivono e creano nel chiuso delle loro stanze, sfidando la paura della riprovazione sociale o del rifiuto. Queste opere, spesso destinate a rimanere sconosciute, costituiscono un museo ideale, una galleria sottratta alla vista del mondo, ma non per questo meno potente o significativa.

In un mondo che sembra sempre più propenso a dimenticare le lezioni del passato, l’arte continua a rappresentare un baluardo di memoria e resistenza. Tuttavia, questa voce potente non può e non deve rimanere confinata nei musei o nelle gallerie, ma deve entrare nel cuore delle istituzioni educative. Oggi, la scuola ha il compito urgente di integrare l’arte nella formazione delle nuove generazioni, non come semplice disciplina estetica, ma come strumento etico e civile. È solo attraverso programmi scolastici innovativi, il coraggio di educatori illuminati e l’impegno degli artisti che l’arte può davvero trasformarsi in un catalizzatore di cambiamento.

Come artisti e educatori, abbiamo visto con i nostri occhi il potere trasformativo dell’arte. Quando un’opera che parla di Memoria o di giustizia raggiunge gli studenti, i loro occhi si accendono, e le loro riflessioni rivelano una profondità e una sensibilità sorprendenti. È in quei momenti che si percepisce la forza straordinaria dell’arte: quella di accendere la coscienza, di alimentare il pensiero critico e di seminare i germogli di una società più giusta.

Il lavoro per i diritti umani, la memoria e la giustizia si inserisce sempre di più nei percorsi educativi grazie alla lungimiranza di docenti e istituzioni, ma c’è ancora molto da fare. L’arte, con la sua capacità di rappresentare e trasformare la nostra millenaria esperienza di civiltà, rimane un promemoria eloquente di ciò che siamo stati, di ciò che potremmo essere e di ciò che non dobbiamo mai dimenticare. È il filo rosso che collega passato, presente e futuro, una guida luminosa che ci invita a non abbandonare mai il cammino verso la dignità, l’uguaglianza e la libertà.

Nelle foto, il Trittico Sprich auch du, San Martino di El Greco, La fucilazione del 3 maggio 1808 di Francisco Goya, Violinista nello shtetl di Jacob Vassover, Bambini nella camera a gas di Simon Balicki, Madonna di Elisabeth Catlett Mora e Guernica di Pablo Picasso

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