di Nicolò Scialfa
Salmo 130 (129): De profùndis. Undicesimo canto delle salite
De profùndis clamàvi ad te, Dòmine;
Dòmine, exàudi vocem meam.
Fiant àures tuae intendèntes
in vocem deprecatiònis meae.
Si iniquitàtes observàveris, Dòmine,
Dòmine, quis sustinèbit?
Quia apud te propitiàtio est
et propter legem tuam sustìnui
Dal profondo a te grido, o Signore;
Signore, ascolta la mia voce.
Siano i tuoi orecchi attenti
alla voce della mia supplica.
Se consideri le colpe, Signore,
Signore, chi ti può resistere?
Ma con te è il perdono:
così avremo il tuo timore.
De Profundis è una lunga lettera che Oscar Wilde (1854-1900) scrisse, dopo essere stato processato per omosessualità, al suo compagno, Alfred Douglas, nel 1897, proprio durante il periodo della carcerazione.
“Sotto un certo rispetto io so certamente che il giorno che verrò liberato, passerò da un carcere ad un altro e vi son momenti in cui il mondo intiero non mi sembra più vasto della mia cella e non mi pare meno colmo di terrore. Tuttavia in origine Dio creò un mondo per ogni singolo uomo, ed è in questo mondo intimo a noi che dobbiamo cercare di vivere”.
Oscar Wilde dal carcere, dimenticato dal suo pubblico, deriso da molti e abbandonato dal fatuo Bosie, a causa del quale è finito in carcere, scrive pagine profonde di riflessione sulla sofferenza e sulla figura di Cristo. Superata la tristezza, la malinconia, la disperazione, la rabbia, l’odio, Wilde giunge alla vita vera, all’esistenza autentica. Comprende di avere avuto finora un rapporto superficiale con il mondo, in quanto si è limitato a ciò che lo attirava come esteta e come artista. Adesso riflette sulla verità nell’arte e sulla figura di Cristo come artista: l’arte richiede infatti immaginazione e l’immaginazione è un atto d’amore. La sofferenza lo inchioda alla verità della sua condizione, della vita e dell’arte. Il dolore e la sofferenza sono il terreno più fertile da cui può nascere l’arte.
La sofferenza avvicina Wilde al cristianesimo, per il quale la sofferenza è la vera moneta del mondo, nel senso che mentre il piacere e la ricchezza non sono mali in sè ma allontanano l’uomo dalla sua interiorità e da Dio, la sofferenza al contrario ha una funzione catartica e richiama ogni uomo alla sua anima. Quella di Wilde non è una sofferenza generica ma l’infelicità vera e propria, dovuta anche alla caduta sociale. Simone Weil, in un suo saggio sull’infelicità paragona la persona infelice alla gallina. La ferita induce le altre galline alla crudeltà e a infierire come spesso sperimentano appunto nella loro vita le persone infelici. Mentre la sofferenza e il dolore possono essere passeggeri, l’infelicità è una condizione permanente dell’individuo, una maledizione che avvicina a Dio pur nella sua infinita distanza.
Dalla sua posizione paradossalmente privilegiata, Wilde vede come Cristo abbia avuto tolleranza e simpatia per le persone infelici e maledette e, al contrario, abbia avversato gli atteggiamenti presuntuosi, perbenisti e arroganti di chi si sente nel giusto e dalla parte dei buoni o dei saggi, dei filistei, farisei, scribi e sacerdoti.
Wilde si sente ormai predestinato all’infelicità e al martirio sociale e vede in questa dolorosa condizione la sua possibilità di riscatto umano e di riabilitazione della sua anima. De profundis è un capolavoro di intelligenza, capace di nobilitare qualsiasi anima. Raramente si coglie, così come in questo scritto, la vera essenza del Cristo. Da accostare ad alcune pagine di Dostoevskij e, paradossalmente, di Nietzsche.