di Nicolò Scialfa
Di Matthias Grünewald si sa poco; forse è vissuto tra il 1455 e il 1528 e forse si chiamava Mathis Gothart Nithart. La sua opera somma è l’ Altare di Isenheim, un polittico con pannelli e ante dipinte da entrambe le parti, detta “la Cappella Sistina dell’Europa del Nord”, per la complessità pittorica. Follie, spettri, fantasmi, dolore terreno dipinti nel 1515, due anni prima dell’esplosione luterana. Guerra, peste, rivolte contadine annegate nel sangue, tragica condizione umana. Cristo colto nel momento in cui esala l’ultimo respiro. Di fronte a queste figure Elias Canetti viene colpito dalla sindrome di Stendhal mentre Dostoevskij cade in muto e cupo silenzio immaginando la morte di Dio. Opera allucinante intrisa di dolore allo stato puro, vergogna, nudità, freddo e, ad un tempo, gloria e trionfo della vita. Giovanni Testori parla di “vegetalità generante e generale… dove le voci, gli stridii e i lamenti… le chiamate soffocanti e inesauste… stanno perennemente sul punto di farsi… come se si levassero dall’intrico arrovellato e crudele delle radici di un’immane foresta…”. E descrive la Crocifissione in questi termini terribili: “Che nel corpo di Cristo dovesse contenersi il massimo d’unicità e quasi di concentrazione della natura vegetale, di quella animale e di quella umana… Cristo, in Grünewald, non scende a incontrarsi solo come uomo; s’incarna come scandalo dell’unità e dell’unicità dell’essere… Il Cristo di Colmar non è più soltanto un colosso umano; e neppur più soltanto un toro indomabile, anche se vinto; le piaghe che maculano la sua pelle non sono più e solo cicatrici o ascessi dovuti alle spine e agli atrezzi della flagellazione e della tortura; esse sono anche, e nello stesso tempo, escrescenze e oscuri morbi di natura tipicamente vegetale, ferite di tronchi strappati, croste di clorofille malate. (…) Nè il rapporto tra la testa di Cristo e la corona di spine è quale risulterebbe se la corona fosse stata veramente infilata sul cranio del Crocifisso; esso è quale sarebbe se la corona ne fosse uscita come una gemmazione spontanea e necessaria; nè più nè meno di come vi sono usciti e cresciuti i capelli… Non era forse scritto da sempre che Cristo sarebbe stato coronato di spine? Ma questo ‘sempre’ è, nello scandalo di Grünewald, talmente reale che la corona si sarebbe sviluppata da sè per ferirlo e torturarlo, anche se attorno a lui non ci fosse stato nessun carnefice. Così è assai difficile capire se le spine che fuoriescono, qua e là, lungo tutto il corpo vi sian state immesse o non siano invece spuntate per una sorta di mostruosa e folgorante capacità vegetale dei suoi stessi muscoli e del suo stesso sangue. L’atrocità dell’atto viene, del resto, subito ribaltata dalla maggior quantità, anzi dal massimo di desiderio, di bisogno e di necessità di sofferenza e di morte che si leggerebbe in Cristo, attraverso questa sua folle, animalesca e divina autospinazione”. La parola che entra in mente è “scandalo” (skandalon, ostacolo, inciampo), lo scandalo dell’esistenza. Tutti gli espressionismi futuri del nord Europa scaturiscono da quest’opera.
“A Grünewald non interessano che l’espressione e il movimento. La norma, la misura, le proporzioni della figura umana (che Dürer perseguì per tutta vita) non lo hanno certamente interessato molto. Le sue forme fisiche sono per lo più brutte, malaticce, impossibili o almeno fuori dall’ordinario, anche quando non si sacrifichi niente all’espressione. I volti sono asimmetrici, quasi in ogni dipinto si riscontrano arbitrii di disegno che hanno una giustificazione artistica; oppure tralascia il modellato, come avviene negli schizzi”. (H. A. Schmid, Die Gemälde und Zeichnungen von Matthias Grünewald, 1911).
Toni drammatici e crudeli, sensibilità esasperata e aspra, sensualità morbosa, dolore realistico e brutale, senza scampo, orrendo e ripugnante. I colori accesi, frutto della sapienza alchemica del pittore, esasperano lo spettatore, gli trasmettono inquietudine e malessere. Michelangelo dipinge la Chiesa trionfante e il suo disegno razionale, Grünewald descrive il dolore inquieto e misterioso del Nord, l’angoscia che non trova riscatto in nessun progetto divino comprensibile all’uomo. Realismo espressionista e spiritualismo è la sintesi di Grünewald. L’ékphrasis (descrizione elegante) spetta a Joris-Karl Huysmans (romanzo Là-bas del 1891) dove riconosce in Cristo un modello da imitare e costruisce un paradigma novecentesco cogliendo l’essenza dell’anima tedesca da Lutero in poi, passando attraverso gli orrori della guerra dei trent’anni sino alla ritrovata e sofferta identità tedesca di primo Novecento. Non esiste comprensione dello spirito tedesco se non si parte dall’artigiano popolare Grünewald, dal suo Cristo nudo e martoriato. Roland Barthes parla di eloquenza del dolore, Ernst Bloch e Martin Heidegger, espressione di pensiero assai distante tra loro, riflettono sul Cristo di Grünewald. E ancora Michail Bachtin e Hans Georg Gadamer… grandi intellettuali che tentano di giungere alla Verità attraverso la Redenzione. Forse è pleonastico dire che dopo la seconda guerra mondiale e gli orrori dei campi di sterminio la riflessione sul Cristo assume, se è possibile, un significato ancora più grande.