di Marina Romagnoli
Ieri, 27 gennaio 2019, Giorno della Memoria, il poeta, studioso della Shoah e mecenate Roberto Malini ha tenuto un incontro a Genova, presso lo Spazio46 di Palazzo Ducale, per l’iniziativa “Segrete – Tracce di Memoria”, organizzata da Virginia Monteverde. “Segrete” si svolge in più giornate, è giunta all’XI edizione e presenta ogni anno, nelle ricorrenza che commemora le vittime dell’Olocausto, alcune delle più importanti voci dell’arte e della cultura che esprimono la loro vocazione e a non dimenticare. Un pubblico numeroso ha riempito lo Spazio46, mostrandosi attento in ogni momento dell’incontro. Virginia Monteverde ha presentato loro l’enorme lavoro compiuto da Roberto Malini fra il 2000 e il 2012, anni in cui, con una ricerca instancabile e capillare, svoltasi a livello internazionale, ha recuperato oltre 170 opere di artisti dell’Olocausto: dipinti, disegni, incisioni e sculture, oltre a decine di cataloghi e pubblicazioni d’arte risalenti agli anni dello sterminio e della distruzione, da parte dei nazisti, dell’arte definita “degenerata”.
“Dovete immaginare un mondo in cenere,” ha detto Malini, “perché il popolo ebraico fu quasi annientato dalla Shoah e le opere dei suoi artisti vennero distrutte con metodo, non solo dai carnefici di Hitler, ma anche dalla gente che assisteva, spesso indifferente, alla furia antisemita che colpiva non solo gli ebrei, ma anche il prodotto della loro cultura e della loro arte. Possiamo stimare che circa duecentomila artisti professionisti vennero deportati e che solo pochissimi sopravvissero. Nel 2000, durante il vernissage di una mostra di mie incisioni dedicate ai bambini della Shoah, a Parigi, una coppia di anziani ebrei, sopravvissuti allo sterminio, mi donò un disegno che raffigurava un rabbino e proveniva dal ghetto di Łódź, in Polonia. Era firmata da David Weiss e datata 1939. La collezione ‘Artisti dell’Olocausto’ iniziò così. Avevo fra le mani un’opera miracolosamente sfuggita alla furia dei nazisti. Mi chiesi se qua e là per il mondo non ve ne fosse un’altra. Interpellai i numerosi testimoni della Shoah e i responsabili di musei memoriali che conoscevo, grazie ai miei studi e alle mie ricerche sull’Olocausto. Identificai alcuni artisti ebrei scampati alla Shoah e ancora viventi. E le famiglie di pittori, incisori, scultori assassinati nei campi di morte. Così le opere raccolte divennero due, poi tre, poi dieci, poi cento… fino a costituire una delle più importanti raccolte di arte dell’Olocausto, comprendente opere di artisti vittime delle persecuzioni e di sopravvissuti”.
Nel 2012 Roberto Malini donò le opere allo stato italiano. Opere che costituiscono il nucleo di una collezione internazionale attualmente conservata presso il Museo Nazionale della Shoah di Roma, che ha sede provvisoria in via del Portico d’Ottavia, 29. La sede definitiva è già stata scelta ed è Villa Torlonia, come stabilisce una delibera del Consiglio di Stato e la concessione dell’appalto a una società di Roma. Dopo tre anni, però, i lavori non hanno ancora avuto inizio, le opere giacciono nei magazzini della Fondazione Museo Nazionale della Shoah (auguriamoci in buone condizioni di conservazione) e il Museo che dovrebbe consentire al pubblico di ammirare la raccolta in una sede permanente si trova ancora in una fase di stallo, in attesa di non ben definite autorizzazioni e dello sblocco di fondi già stanziati e destinati a completare il progetto. Roma e l’Italia meritano il Museo Nazionale della Shoah, l’unico museo in Europa che possegga una collezione di arte dell’Olocausto rappresentativa di tutti i Paesi caduti nell’ombra del nazifascismo. Una sede ideale per le visite di capi di stato e figure rappresentative della cultura e della politica internazionali, “ma soprattutto degli studenti,” ha spiegato il donatore, “che nei Giorni della Memoria potrebbero ammirare il prodotto del talento di un popolo che è stato rastrellato, deportato, barbaramente assassinato e dato alle fiamme nei forni. Potrebbero ammirare quello che resta dell’arte yiddish, ‘semplice come una preghiera’, che rappresenta il mondo degli shtetl, i villaggi ebraici che possiamo vedere ormai solo nei dipinti di Marc Chagall e pochi altri artisti ebrei dell’Est, fra cui Jacob Vassover, l’ultimo pittore yiddish, che ho conosciuto, incontrato in Israele e intervistato. Per la collezione, ho acquisito alcuni dei suoi capolavori”.
Gli intervenuti hanno mostrato un grande interesse verso gli argomenti espressi da Roberto Malini, che si è soffermato a parlare dell’importanza da parte dell’arte e della poesia di dedicarsi a ricordare l’Olocausto, le sue vittime (gli ebrei, i rom e sinti, gli omosessuali, i Testimoni di Geova, i disabili, i senzatetto e tutti i gruppi sociali che i nazisti identificavano come “diversi”), i suoi Giusti e i suoi eroi. È stata una ‘lectio magistralis’ tenuta con il cuore. Indimenticabile l’azione di versare latte nero in un bicchiere, con cui Malini ha introdotto la sua lettura, commovente fino alle lacrime, della poesia di Paul Celan “Todesfugue” (“Fuga di morte”), che inizia con le parole “Latte nero dell’alba”. Ricordiamo che Malini ha ritirato nel 2018 il Premio Rotondi – Arca dell’Arte come salvatore dell’arte dell’Olocausto. Oggi stesso scriveremo una lettera rivolta al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, al Comune di Roma a allo stesso Museo Nazionale della Shoah di Roma per chiedere che abbia termine lo stallo che caratterizza i lavori di ristrutturazione della sede destinata ad accogliere gli Artisti dell’Olocausto. Ci auguriamo che facciano come noi tanti altri cittadini, perché bloccare la Memoria significa dimenticare i milioni di martiri: un’amnesia istituzionale e collettiva che può condurci solo in una nuova, tenebrosa barbarie.
Nelle foto di Steed Gamero: l’acquaforte di Eva Fischer e il ritratto di lei, in esposizione durante l’evento; momenti dell’incontro con il poeta e mecenate Roberto Malini, presentato da Virginia Monteverde.