Agata De Nuccio, poetessa veronese, dedica sempre una notevole attenzione alla parte più debole dell’umanità, quella gente che non ha mai voce ed è costretta a una continua resistenza-resilienza per sperare di sopravvivere. Nello spazio bianco che divide i suoi versi sembra di scorgere il passaggio di ombre che si muovono con cautela, rannicchiate in se stesse nel tentativo di non essere scorte, di essere invisibili. I versi di Agata sono rari, preziosi, autentici proprio per questa loro aura di umanità e civiltà. Osservatrice di un mondo che ha sede sotto, da dietro e oltre il mondo di chi consuma, usufruisce di servizi, viaggia ed è protagonista del proprio tempo, anche la poetessa si cela all’interno della sfera della propria coscienza, su una poltrona che è la più scomoda del mondo. Da lì si vede la verità della vita, che non è una verità giusta né onesta né accettabile. L’autrice la vede da uno schermo di lacrime, sdegno e amore… e ci vuole un po’ per mettere a fuoco le piccole ombre fuggitive: sono bambini, donne e uomini che non posseggono niente, se non gli stracci della povertà e una ciotola che ogni giorno solo un miracolo può riempire di riso o d’acqua. Sono gli emarginati, gli oppressi, i condannati a vivere sul confine fra l’esistere e il non esserci più. Insieme, la poetessa e le sue ombre – in un’alba che germoglia fra rovine – resistono perché il nuovo giorno non sia ancora più crudele della nuda speranza. Roberto Malini
L’arte di resistere
di Agata De Nuccio
Sulla poltrona della mia coscienza
siedono bambini
donne e uomini senza diritti
siedono i deboli, i malati e i derelitti
siedono i potenti e i malvagi
sulla poltrona della mia coscienza
siede la mia penna
e tutti sono citati nella mia poesia,
ai primi spetta di diritto entrare
in questa alba che germoglia dalle rovine
ai secondi l’obbligo di ascoltare
il tuono delle loro bombe,
mentre il cuore tumeggia contro le costole
sventolerò sulle loro bocche
la poesia
e il silenzio eloquente della luna
l’arte di resistere spetta allo scriba.
Dipinto di Käthe Kollwitz, “Donna con bambino senza vita”