di Roberto Malini
Pesaro, 19 agosto 2020. In questi ultimi giorni la cittadinanza di Pesaro ha improvvisamente riscoperto la scultura “Arim” del maestro Agàpito Miniucchi, nato a Rocca Sinibalda (RI), il 26 settembre 1923. L’opera si trova nei giardini di via Colombo intitolati a Nilde Jotti. Se ne è iniziato a parlare perché alcuni cittadini, giudicandola “pericolosa”, hanno chiesto al Comune di recintarla. Non accontentandosi dell’allarme sollevato, hanno espresso, attraverso i gruppi Facebook locali, pareri fortemente denigratori verso il lavoro di un artista che è noto in tutto il mondo e di cui hanno parlato in termini lusinghieri alcuni fra i più importanti critici d’arte del Novecento: “Sembra un binario divelto”, “Ma è arte o uno scarto di cantiere?”, fino all’iconoclastico “Se vinciamo le Regionali, vedrete che fine farà…”. Vi sono stati anche commenti positivi e tante domande, poste soprattutto dai giovani. Da parte mia, ho colto l’occasione per tentare di spiegare a tante persone perché gli artisti come Agàpito Miniucchi sono importanti per la nostra società e il mondo dell’arte. Il risultato è stato incoraggiante, tanto che – con le opportune misure anti contagio – condurrò presto alcuni studenti ad ammirarla, spiegandone loro le caratteristiche. In particolare, il potente legame con il mare, che è simbolo dello spazio dell’esistenza e del coraggio con cui la si affronta ogni giorno, animati dallo stesso spirito che spronava Odisseo nel suo viaggio di ritorno a Itaca o Artù, inginocchiato di fronte alla roccia, mentre si accingeva alla sua grande impresa. Una peculiarità dell’opera, che ha suscitato commenti preoccupati da parte dei denigratori, è l’aspetto della sua parte metallica, che è stata definita da più parti come “lasciata a se stessa e tutta arrugginita”. In realtà si tratta di una scelta del maestro, che ha impiegato nella realizzazione di “Arim” l’acciaio Corten (o Cor-Ten), che produce in superficie una patina di ossido, simile alla ruggine causata del tempo e dalle intemperie, ma a prova di qualsiasi agente naturale. Si tratta infatti di un materiale resistente che si autoprotegge dalla corrosione grazie alla formazione di uno strato ossidato superficiale che non intacca la scultura e crea nel corso del tempo interessanti variazioni cromatiche, come il bronzo e altri materiali. I giovani hanno apprezzato molto il soprannome che ho attribuito in un articolo alla scultura: “l’Excalibur di Pesaro”. In effetti, è una “spada nella roccia” che chiede a ognuno lo sforzo – non fisico, ma intellettuale – di comprenderne il significato, magari attualizzandolo, perché l’arte non ha mai una sola interpretazione, ma è motivo di riflessioni attraverso il tempo e gli sviluppi della cultura del popolo che la ospita e degli osservatori che vengono da fuori. Una cosa è certa: Agàpito Miniucchi era un artista concettuale ed era molto vicino alla corrente artistica dell’arte povera, un movimento nato negli anni 1960 per rinnovare l’arte tradizionale, rifiutandone a volte le tecniche, i materiali, i supporti e avvalendosi invece di materiali di recupero come legno, ferro, plastica, stracci, scarti dell’industria. Ed ecco che le critiche, anche feroci, rivolte da un manipolo di cittadini alla scultura trovano una giustificazione. L’arte povera, infatti, è nata per indignare i tradizionalisti e gli accademici, scuoterli, farli pensare a nuove vie di espressione. In quest’ottica, la definizione di “scarto di cantiere” o “binario divelto” assume un significato diverso dal puro rifiuto. Chi odia, ama; chi ritiene di possedere le chiavi della bellezza, in realtà non le ha mai avute e non è mai riuscito ad aprire certe porte del sapere, dell’osservare, dell’apprendere. Agàpito Miniucchi, dopo il periodo giovanile che lo vide ispirato dal naturalismo magico, si avvicinò all’arte povera nel 1968, proprio quando il mondo – e in particolare i giovani – si sollevò per dire no ai sistemi di potere e alle loro ideologie. L’arte povera esprime ancora oggi quel no, quella volontà di rendere più semplice e onesto il linguaggio dell’arte. Nel frattempo, come è naturale e giusto che sia, abbiamo aggiunto una serie di nuovi significati alle installazioni di artisti come Miniucchi. Non vediamo più, in esse, la sola ricerca di idee alternative a quelle dominanti, ma anche un messaggio crudo e urgente contro l’incombenza di fenomeni distruttivi quali il cambiamento climatico, l’inquinamento, l’intolleranza che diviene ideologia di massa. Nella poetica di Miniucchi, il legno dei treni, le traversine e i binari sono un simbolo del rinnovamento delle arti, della necessità di riscoprire l’umano nel pensiero creativo e nella memoria storica. Non è difficile immaginare l’artista attraversare i decenni proponendo accostamenti e relazioni – come esplosioni di pura energia – di materiali diversi come la pietra e l’acciaio, ma anche il legno, la corda, il piombo. Grazie alla disponibilità di Alberico Miniucchi, nipote del maestro, ho avuto modo di leggere una lettera, scritta da Agàpito Miniucchi a una critica d’arte il 29 ottobre 2012. Nella missiva, l’artista descrive in una sintesi poetica l’opera “Arim”: “Ho abitato con i miei genitori dall’età di dieci anni in Viale Zara al n. 45 in Villa Olga davanti al moletto. Le suggestioni di quel tratto di mare hanno inciso profondamente nella mia formazione giovanile tanto che volevo fare il capitano di mare, per viaggiare, conoscere il mondo. Il mio affettuoso legame con Pesaro e con quel luogo mi ha suggerito di creare una scultura ‘Arim’ (termine etrusco) nel 1982 che coniugasse, terra e mare nel desiderio innato nell’uomo per la conoscenza, l’avventura. Odisseo ne è stato l’esempio più eclatante”.
Nella foto di Fabio Patronelli, Roberto Malini presso la scultura di Agàpito Miniucchi