di Roberto Malini
Il mio pensiero sul “Dantedì”, per il Centro Lunigianese di Studi Danteschi. Un grazie a Mirco Manuguerra, esimio dantista e promotore culturale, per avermi invitato a esprimerlo.
Pesaro, 25 marzo 2021. Il giorno di Dante è quello in cui il divino poeta inizia il suo percorso. Se ci si riflette, è un percorso che ha tanti punti in comune con quello dello scienziato. Ogni rivelazione inizia con il buio, con l’oscurità, con una linea di pensiero che improvvisamente diventa intricata. Allora si chiudono gli occhi e ci si affida alla propria esperienza, alla propria conoscenza. In quell’attimo di buio, a volte si comincia a vedere. Più ancora che a Galileo o Einstein, penso all’immunologo statunitense Rick Arthur Bright, l’ex capo della sanità americana, silurato da Trump a causa della sua prudenza rispetto alla politica di somministrare alla popolazione farmaci sperimentali e potenzialmente pericolosi. Bright (il cui cognome significa “luminoso”) ha affermato più volte di temere, a causa del Covid-19 e della scarsa efficienza generale nell’affrontarlo, “un lungo inverno buio”. Come Dante, come lo scienziato luminoso, siamo ancora tutti nella selva oscura. Ci chiediamo se sarà la scienza a salvare ancora una volta l’umanità. Saranno gli eredi di Newton, Fresnel, Maxwell a illuminare le nostre idee? Oppure saranno i grandi virologi, le équipe dei più brillanti immunologi? Da parte mia, ho una grande fiducia nella scienza, ma credo che essa abbia bisogno di poesia. La pura logica non ha gli strumenti per consentirci di ritrovare la “diritta via” in questa realtà sospesa fra fenomeno ondulatorio ed entità particellare. La fisica non ha le chiavi per aprire dimensioni esterne o parallele alla natura. Anzi, come scrisse Niels Bohr, “è un errore anche solo pensare che la fisica abbia il compito di scoprire come è la natura, perché la fisica riguarda solo quello che noi possiamo dire, a proposito della natura”. Dante è una guida, perché la grande poesia è una guida per ogni attività umana; non a caso, gli antichi scrivevano anche i trattati scientifici in versi.
Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.
Credo che il “Dantedì”, il giorno di Dante, sia il momento in cui ognuno di noi – gli scienziati e i poeti, i potenti e gli umili, coloro che guardano sempre alle proprie spalle e coloro che invece guardano sempre in avanti – può fermarsi un attimo per chiudere gli occhi, sintonizzarsi con il proprio respiro e aprire gli “altri” occhi, quelli che sono in fondo agli occhi fisici, nella regione oscura da cui necessariamente deve iniziare il viaggio verso la luce. Una curiosità: nel Paradiso la parola “luce” compare 63 volte. A parte i valori che il numero potrebbe suggerire, non vi è dubbio che sia un numero basso, rispetto a quanto ci si attenderebbe dalla “Cantica della luce”. In realtà, tuttavia, ogni parola, nel Paradiso, è intrisa di luce e, come nella meccanica quantistica, non vi è più differenza fra radiazione e materia. Se tale differenza esistesse, sarebbe tutto chiaro e non vi sarebbe più niente da scoprire, nessun viaggio da iniziare, nessuna poesia. Grazie al Cielo, invece, la poesia, la poesia di Dante, ci ricorda che siamo ancora umani e ci invita a seguirla, per conoscere meglio la nostra natura o per inseguire una meta “che solo amore e luce ha per confine”.