di Roberto Malini
A volte ci si chiede in che momento del passato l’arte divenne libera dalle convenzioni, dalla forma, dal gusto del pubblico, dal timore della critica, dal senso delle proporzioni, dal cosiddetto “buon gusto” e anche dalla tradizione. È una risposta impossibile, perché vi è forse più libertà nella pittura rupestre, nell’arte minoica o nella scultura cicladica di quanta non ve ne sia in quella moderna e contemporanea. Vi sono però opere di fronte alle quali la nostra mente non vede né il bello né il brutto, ma il nuovo, il sorprendente. Quella libertà che ci turba e desta contemporaneamente la nostra ammirazione. Una di tali opere è l’Allegoria della Salvezza di Rosso Fiorentino, dipinta intorno al 1522 e conservata nel LACMA di Los Angeles. Il grande olio su tavola ci raggiunge come una vertigine, ci scuote, cancella il nostro ideale di forma, di composizione, di armonia. Ne percepiamo la genialità, ma distorce i nostri sensi, li aggroviglia, li confonde con i suoi angeli che svolazzano come spettri o pipistrelli e le figure sacre che paiono prive di contegno, di ragione, di lucidità. Tutto è acido, cupo e la sola pace, la sola santità che il dipinto ci ispira è quella della follia.