di Roberto Malini
Quando pensiamo all’iperrealismo, ci vengono in mente opere d’arte così simili a fotografie che il confine tra l’opera del pittore e quella del fotografo si assottiglia fino a scomparire. Una delle prime mostre di artisti iperrealisti, che si tenne nel 1964 presso la New Mexico Gallery di Albuquerque, negli Stati Uniti, aveva come titolo “The Painter and the Photograph” (“Il pittore e il fotografo”). Artisti come Richard Estes o Pedro Campos inducono chi ammira i loro lavori a chiedersi: “Ma è davvero un dipinto?”. Sono opere che confondono come enigmi e che hanno sempre il reale come soggetto. E ci riferiamo al reale in senso fisico, materiale: paesaggi, oggetti, animali ed esseri umani colti in un istante del loro esistere e apparire, sotto luci vere e in un tempo vero. Quell’istante che Campos definiva “realtà del colore”. Negli anni 1980 ho conosciuto, a Milano, Sandro Bastioli, maestro italiano dell’iperrealismo e ho avuto la netta sensazione che gli importasse più di ogni altro aspetto della pittura la sua fedeltà al reale, a porzioni di mondo vere, anche se mutevoli secondo il capriccio della luce. Con questa premessa, introduco il lavoro di Romano Fracassini, un artista che viene spesso inquadrato come esponente della pittura iperrealista, ma che a mio avviso se ne distacca, perché nei suoi lavori rinuncia regolarmente all’oggettività assoluta a favore dell’emozione, di una vena lirica che traspare tanto nei suoi scorci che nei suoi ritratti. Ho letto e ascoltato diverse opinioni riguardo alle sue vedute di Pesaro, cui si dedica da tanti anni, e nessuno ha mai lodato di primo acchito il loro realismo fotografico, ma piuttosto il carattere delle opere, la loro capacità di emozionare, commuovere, turbare, richiamare memorie e suggestioni.
Romano Fracassini nasce a Genga, in provincia di Ancona, nel 1942. Talento precoce, suscita ben presto l’attenzione di maestri come Augusto Ciarrocchi e Francesco Carnevali, che lodano la sua predisposizione al disegno, consigliandolo di dedicarsi allo studio dell’arte. Nel 1956 si iscrive all’Istituto d’arte Ferruccio Mengaroni di Pesaro, sostenuto con notevoli sacrifici dalla famiglia, con il supporto del Comune di Genga. Per qualche tempo, frequenta inoltre lo studio di Ciro Pavisa, allievo di Luigi Scorrano e seguace di Giovanni Segantini e Gaetano Previati. Oltre che Pavisa, ha fra i suoi insegnanti Loreno Sguanci, Giuliano Vangi e Vladimiro Vannini. Sotto la loro guida, si diploma a pieni voti nel 1962. Successivamente si dedica allo studio della ceramica, mettendo in mostra un notevole talento, che porterà il rettore dell’Università di Urbino Carlo Bo a commissionargli l’opera “I gatti”. Le sue mostre ottengono sempre un notevole consenso di pubblico e critica, fino alla personale del 2007 patrocinata dall’Assessorato alla cultura di Pesaro e sostenuta dal Sagittario delle idee: “Romano Fracassini. Genga-Pesaro solo andata”. L’artista riscuote un importante successo. La critica nota come il realismo della sua pittura non sia tanto “iper” quanto “meta”: una pittura di luci che circondano o attraversano le cose rivelando i loro rapporti con chi le osserva e non solo con il tempo e lo spazio. Per definire il suo realismo con un riferimento all’età classica – e non più al movimento nato negli Stati uniti negli anni 1960 – non paragonerei la sua ricerca a quella di Zeusi o Parrasio (iperrealisti ante litteram), sempre intenti a ingannare l’osservatore attraverso la straordinaria verosimiglianza dei soggetti, ma piuttosto a quella di Apelle, che osava cercare luci e ombre un po’ più in là del reale, un po’ più in là del mondo fisico che era sotto gli occhi dei suoi concittadini.