Dantedì puntuale, indetto dal CLSD, per ricordare ogni anno il 4 aprile 1300, quando Dante supera la selva oscura e il suo viaggio ha inizio, tracciando una via nuova da cui la cultura e la civiltà non avrebbero più potuto prescindere, perché il viaggio della Commedia è l’itinerario che tutti noi – popoli, gruppi sociali e individui – possiamo percorrere, se vogliamo allontanarci dal regno della materia, dell’avidità, delle passioni, della violenza, per avvicinarci alle risposte che non abbiamo, risposte che appartengono all’anima e all’eterno. Un risveglio o almeno il presagio di un risveglio: ecco il nostro Dantedì. Il mio contributo al Bollettino “Lunigiana dantesca” è poetico, perché la poesia è una delle chiavi che Dante ci ha tramandato: chiave d’oro che apre porte mistiche. Il Dantedì è simbolo di speranza, perché ogni volta che qualcuno inizia il viaggio mistico, l’annientamento dell’individuo e del suo universo si allontana. Solo nella vita, la cui metafora è la selva oscura, può iniziare il viaggio e non senza dubbi e paure, non senza fare i conti, prima di intraprenderlo, con i guardiani della realtà. Lo sanno bene i mistici induisti, che all’inizio del loro cammino verso la saggezza si imbattono nei vanadevatas, gli spiriti della selva, e soprattutto nei Devata Lokapāla, i guardiani delle direzioni. Senza quegli incontri, ci si perde e la luce cui si anela è sempre più offuscata o lontana. I mistici ebraici insegnano a propria volta ai devoti che solo scindendo i legami con la materia bruta e solo accettando e affrontando le proprie paure si possono percorrere i sentieri – Sefirot – della conoscenza, per conseguire il supremo dei beni, la più alta delle visioni. Smarrimento e dimenticanza: ecco i sentimenti che pervadono il viaggiatore mistico che si mette in cammino. Ed è lì, in un attimo fermo nella paura, nell’impossibilità di trattenere frammenti di memoria appartenenti all’assoluto, è proprio lì che inizia il viaggio impossibile, di Dante e nostro.
Prima del viaggio
di Roberto Malini
Ogni mattino il cuore protegge lo spirito magnetico
e i suoi archi di rose, le pagode, gli specchi
che trattengono il tempo nelle sfere di luce.
Ma cedendo la fiamma alla cassa materica
al crepuscolo cade nel vuoto temporaneo
e dimentica di essere un angelo, inebriandosi
di pura libertà. Poi, quando il soffio luminifero
lo raggiunge e l’avvolge fra colonne mentali
il custode si sveglia in un guscio di boro.
Ecco allora che sorge dal nido gravitazionale
nella forma di un antidrago e in lui riaffiora
la memoria di tutto, da quando il tempo sanguina
alle scale di nuvole, dal profumo delle tuberose
a quel canto lontano che lo commuove ancora.
Così speranza si rannicchia in una lacrima
che cade sulla terra senza rumore.
E il destino di ghiaccio è rimandato ancora.
Nelle foto: incisione di Gustave Doré, Dante nella selva oscura, 1861 e dipinto di Pierre Amédée Marcel-Béronneau, Orfeo nell’Ade, 1897, Marsiglia, Museo delle Belle Arti