di Roberto Malini
È morta all’età di 75 anni Patrizia Cavalli, poeta e non poetessa: fu lei stessa, in diverse occasioni, a suggerirci di non usare la declinazione femminile per definirla. Ci ha lasciati nel solstizio d’estate, la stagione che amava di più e che ritroviamo nei suoi versi come tempo di attesa o di gioia. Negli anni 1980, Patrizia è stata una mia cara amica e la ricordo come una donna profondamente buona, riservata e gentile, tanto umile quanto dotata di un prezioso talento. Nacque a Todi, in Umbria, il 17 aprile 1947 e crebbe in quella terra dai ritmi antichi, fra dorsali che racchiudono, in una solennità rurale senza tempo, le fonti stesse della poesia italiana. A vent’anni si trasferì a Roma, dove conobbe Elsa Morante, che la aiutò a diventare una poetessa consapevole e completa. Grazie al sostegno della Morante, Patrizia scrisse e pubblicò per Einaudi la sua prima e forse più conosciuta raccolta di versi: Le mie poesie non cambieranno il mondo. Elsa Morante è universalmente nota per i suoi romanzi, racconti e saggi, tuttavia – come Patrizia amava ricordare – si considerava poetessa, anzi, poeta, prima ancora che scrittrice. Nel 1976 Patrizia Cavalli fu inserita nell’antologia Donne in poesia, quindi pubblicò, sempre per Einaudi, la silloge Il cielo. Era il 1981, quando la conobbi. Di lei mi colpirono la lucidità e la presenza nel mondo: nonostante avesse realizzato il suo sogno, non si era chiusa in una torre d’avorio, ma aveva scelto di partecipare al dolore della gente, seguendo le vicende che caratterizzavano il tempo in cui viveva con piena adesione emotiva. Soffriva a causa delle diseguaglianze sociali, degli abusi sui più deboli, dell’intolleranza. Era una lettrice di poesia originale e virtuosa, capace di adoperare la voce come uno strumento suadente, connotato da profondità e toni ricchissimi. Penso di essere stato il primo a sottolineare il suo talento scenico, che successivamente sarebbe emerso attraverso reading indimenticabili presso l’Auditorium di Roma. Nel 1983 la invitai a partecipare a una lettura a Bologna nel cortile di Palazzo d’Accursio. “Vorrei tanto, ma non sono pronta,” mi rispose. Parlavamo di poesia, letteratura, arte, diritti umani. Ci univa l’amore per i versi di Emily Dickinson. Ancora con Einaudi, Patrizia pubblicò nel 1992 la raccolta L’io singolare proprio mio, quindi Sempre aperto teatro (1999), che ottenne il Premio Viareggio-Repaci, Pigre divinità e pigra sorte (2006), Datura (2013), Vita meravigliosa (2020).
Amo molto la sua unica opera in prosa, Con passi giapponesi (2019), una silloge di racconti che ha ricevuto il Premio della Giuria al Campiello. Nella recensione che ho dedicato al libro, ho scritto: «La sua poesia, anche quando non si divide in versi, è come lei, che scrive “Ma a chi parlo, quando parlo da sola? Parlo a qualcuno che non sono io. È un’immagine interiore nella quale convergono velocemente e in modo frammentario tutti. È una figura volatile fatta di volti in mutazione”… Poesia irragionevole, prosa irragionevole di un’autrice che insegue la felicità ed è “nata per essere irragionevole”… “La ragionevolezza tende al possibile. La felicità non può essere catturata dal possibile. La felicità è l’avvento del miracolo”. Con passi giapponesi è un libro liquido e bellissimo. Ma non è ragionevole. È semplicemente miracoloso». Dopo una lunga malattia, affrontata con grande coraggio, la grande poeta ci ha lasciati, consegnandoci alcune delle poesie più intense e commoventi del nostro tempo.
Dedico al ricordo di Patrizia una poesia in cui, ne sono convinto, si riconoscerebbe, rilevando con un sorriso alcune delle confidenze che ci univano.
Una poesia in memoria di Patrizia Cavalli
Invisibile eppure vera
come profumo di tè verde,
si muoveva in silenzio nella casa,
socchiusa in sé.
Dalla finestra guardava il giardino,
aspettava, sussultava ogni volta
che il vento faceva ondeggiare
la punta del pioppo cipressino.
“Osiamo,” pensava, “fino a dove
non ci si perde”.
Come se ne andò via
lo sa solo l’aroma.