di Roberto Malini
Il caso della “Ragnatela” di Pesaro, il grande inserto pavimentale in piazza del Popolo, creato all’inizio del XVII secolo dall’architetto Nicolò Sabbatini, suscita numerose domande riguardo alla gestione dei nostri centri storici, troppo spesso oggetto di rifacimenti indiscriminati di vie e piazze.
Fortunatamente le Soprintendenze lo capiscono sempre di più e oggi tendono a intervenire quando le amministrazioni disattendono i progetti concordati e lavorano “di ruspa”.
La verità è che le città dovrebbero imparare a recuperare i materiali storici, restaurandoli e non sostituendoli. Una piazza che presenti i segni del tempo, sotto forma di crepe, è più suggestiva, più interessante, più pregiata di una piazza completamente rifatta.
Blocchi di pietra e selci, quando correttamente rimessi in linea e restaurati, sono espressione di identità, di storia, di cultura. Il continuo cambio di materiali porta all’apertura di cave sempre nuove, che devastano montagne e ambiente.
Vi è inoltre un mercato sotterraneo di materiale antico: marmi, mattoni, selci, inserti pavimentali. Le ville pagano cifre importanti per averli e le imprese, dopo averli rimossi, hanno dato vita a un business che accontenta solo persone senza cultura, che desiderano avere materiali storici per appagare il loro narcisismo, senza neanche conoscere il contesto di quelli che si sono procurati.
Non sempre le Soprintendenze sono in grado di valutare l’età di un elemento in pietra (non è facile; da parte mia, ho avuto la fortuna di ricevere preziosi insegnamenti dal grande Marcello Barbanera e dai numerosi esperti che ho frequentato, a volte proprio per salvare antichità dalle ruspe).
Tipiche scuse da parte di chi preleva materiale antico, sostituendolo con pietra scavata e tagliata oggi (non necessariamente con secondi fini: vi è chi ritiene che il nuovo sia esteticamente migliore e più funzionale di ciò che è datato), sono le seguenti: “Si è sbriciolato fra le nostre mani”; “Era irrecuperabile”; “Non era antico, vi erano già stati rifacimenti moderni”.
L’arte giapponese del Kintsugi (金継ぎ), nata alla fine del 1400, ci insegna che ogni oggetto può essere recuperato e riparato, persino una tazza andata in pezzi. E ci indica che le tracce della storia delle cose, siano esse tazze, blocchi di pietra o semplici ciottoli, ne rappresentano il maggior valore.
Illustrazione A.I. – R. Malini