di Roberto Malini
Dantedì puntuale, 4 aprile 2023, 723° anniversario dell’uscita immaginaria di Dante dalla “selva oscura”. Articolo per il bollettino Lunigiana dantesca.
La “selva oscura”, perché ci affascina e contemporaneamente ci spaventa? Chi non ha provato queste emozioni parallele quando, nell’infanzia, ha letto o ascoltato dalla voce di un insegnante, per la prima volta, l’incipit dell’Inferno di Dante, così simile all’inizio di una favola? Hänsel e Gretel si perdono nel bosco, prima di imbattersi nella casa della strega; Cappuccetto Rosso si smarrisce nella macchia, mentre si reca dalla nonna per portarle un cestino pieno di vivande. Biancaneve si addentra di corsa nella foresta, per sottrarsi all’odio della regina malvagia. E Dorothy si perde nella foresta incantata di Oz, durante l’avventura che la ricondurrà a casa. Fiabe e miti ci rivelano quasi sempre che è impossibile compiere un’impresa memorabile se prima non ci si perde nel mondo naturale, dove vivono le fiere e anche le ombre fanno paura. Chi ha ricevuto un’educazione cristiana, sa che nel bosco, metafora del peccato, si innalzano minacciosi gli alberi cattivi, perché quelli buoni sono negli orti e nei frutteti; nel Vangelo di Matteo (7:17-20), Gesù dice: “Ogni albero buono produce frutti buoni, ma l’albero cattivo produce frutti cattivi. Un albero buono non può produrre frutti cattivi né un albero cattivo può produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere”. Al contrario, l’Induismo interpreta il bosco come un luogo di meditazione e ricerca interiore, dove l’individuo può incontrare il Sé più profondo e trovare la via per la realizzazione spirituale; così lo descrive per esempio la Bhagavad Gita. Anche i filosofi hanno identificato talvolta il bosco come una regione della mente umana. Jean-Jacques Rousseau definisce lo “stato di natura” paragonandolo a un bosco inaccessibile e selvaggio, dove l’uomo è libero ma nello stesso tempo vincolato alle leggi fisiche. Heidegger utilizza il termine “Wald” (“bosco”) come metafora dell’inconscio, dimensione dell’essere umano che sfugge al controllo della ragione. Il francese Gaston Bachelard, filosofo della scienza e della poesia, vede la selva come un luogo di transizione, di passaggio dall’essere al non-essere, uno spazio che evoca emozioni profonde e sentimenti di paura, mistero e meraviglia. Secondo lo psicoanalista Carl Gustav Jung il bosco corrisponde all’Ombra, una sezione dell’inconscio che contiene aspetti negativi e repressi della personalità umana. Tuttavia, essa non va sfuggita, perché riconoscere l’Ombra, entrare nel bosco, significa accettare la propria natura duale, per avere un’esperienza equilibrata nel rapporto con il proprio mondo interiore e quello esterno. L’opinione di James Hillman – che mi ha onorato con la sua amicizia e una folgorante prefazione al mio saggio “Pan dio della selva” – è che nel bosco abbia casa il nostro “daimon”, l’energia della nostra anima, la parte invisibile di noi che ci ispira e guida, chiamandoci all’immensità della natura. Quando si accinge a scrivere il suo capolavoro, Dante ha consapevolezza di come la selva sia nello stesso tempo la culla dell’umanità e il punto di fuga dalla sua natura atavica, belluina. Sa perfettamente che si tratta di uno stato di coscienza in cui non esistono più riferimenti morali né culturali, ma solo delirio, terrore, dubbio, estasi. Tuttavia, sa anche che non può esistere poesia senza smarrimento e che le divinità capaci di ispirare i vati dell’antichità classica, prima di essere Muse erano conosciute come Ninfe, personificazioni delle forze primeve che la natura selvaggia esprime.
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