di Roberto Malini
Paul Celan, nato Paul Antschel nel 1920 a Cernăuți (oggi Ucraina), è una delle voci più profonde e tormentate della poesia del XX secolo. Sopravvissuto all’Olocausto, durante il quale perse entrambi i genitori, Celan trascorse il resto della vita a Parigi, dove l’ombra del trauma vissuto continuò a oscurare la sua esistenza. La sua poesia, densa e complessa, riflette il difficile rapporto con la realtà e la vita dopo l’orrore, cercando di dare voce a un dolore che non può essere pienamente espresso.
“Letto di neve” è un’opera che risuona delle stesse inquietudini e angosce presenti in una delle sue poesie più celebri, “Fuga di morte”. In entrambe le opere, gli occhi umani sono oscurati dalla realtà circostante e dal peso dei ricordi, incapaci di vedere la luce, immersi in un buio che richiama il “latte nero dell’alba” di cui parla Celan nella sua Fuga. Quel buio, carico di una desolazione senza fondo, è ovunque: nel cielo e negli abissi che si aprono fra i suoi versi, come se l’anima fosse perennemente sull’orlo del nulla, pronta a essere inghiottita.
Il “letto di neve” in cui cadono e giacciono i protagonisti della poesia è un’immagine che evoca la totale assenza di calore, un luogo in cui il tempo sembra intrecciarsi e stratificarsi, imprigionando l’esistenza in un eterno inverno dell’anima. In quello spazio gelido e bianco, dove non esiste alcuna consolazione, Celan ritrova una sorta di specchio della sua stessa esperienza di vita: un mondo privo di calore umano, dove la discesa nell’oscurità è inevitabile.
La discesa continua, la caduta che sembra non avere fine, è una metafora della condizione esistenziale di Celan dopo l’Olocausto: una caduta nelle profondità notturne del tempo, dove il passato e il presente si mescolano in un’agonia senza risoluzione. Il poeta e l’uomo si confondono, diventando “una sola carne con la notte”, incapaci di distinguere tra il sé e l’oscurità avvolgente e dissipante. In quello spazio, non c’è risalita, solo corridoi senza fine, dove si cammina senza mai arrivare.
Con “Letto di neve”, Celan ci conduce ancora una volta nelle profondità della sua esperienza interiore, in un viaggio che non offre redenzione, ma solo la cruda verità di una vita segnata dall’indicibile.
Letto di neve
di Paul Celan (trad. Roberto Malini)
Gli occhi, ciechi al mondo, nell’agonia degli strapiombi: arrivo,
mio saldo cuore.
Arrivo.
Scogliera specchio di luna. Caduta.
(Bagliore macchiato di respiro. Sangue sparso in zone sottili.
Anima che si dissolve in un banco di nubi,
anche stavolta prossimo a una configurazione netta.
Ombra decadigitale — posizione contratta.)
Gli occhi ciechi al mondo,
gli occhi nell’agonia degli strapiombi,
gli occhi, gli occhi:
il letto di neve sotto di noi, il letto di neve.
Cristallo dopo cristallo,
intrecciati nelle griglie della profondità del tempo, cadiamo,
cadiamo e giacciamo e cadiamo.
E cadiamo: eravamo. Siamo.
Siamo una sola carne con la notte.
Nei corridoi, i corridoi.
Ritratto ideale di Paul Celan in AI e pittura digitale