di Roberto Malini
Di fronte al movimento costante di imbarcazioni fatiscenti verso le coste italiane, emerge una verità inquietante: molti dei cosiddetti “capitani” o “scafisti” che finiscono dietro le sbarre non sono altro che vittime di un sistema di sfruttamento ben più grande di loro.
Il caso di Maysoon Madjidi, una giovane attivista curda arrestata il 31 dicembre 2023 a Crotone con l’accusa di essere una scafista, ha acceso i riflettori su un fenomeno sempre più diffuso nelle aule di tribunale italiane. Madjidi, 29 anni, è stata accusata di essere un’addetta alla guida del barcone sbarcato a località Gabella, trasportando 77 persone. Al doldo dei trafficanti. Tuttavia, la sua storia e quella di molti altri migranti condannati come lei dipingono un quadro ben diverso da quello delle tradizionali narrative su chi gestisce il traffico di esseri umani.
Chi controlla davvero le rotte migratorie dalle coste del Nord Africa verso l’Italia non sono individui come Maysoon, bensì potenti organizzazioni criminali che operano in sinergia tra il crimine locale e quello transnazionale. Intorno allo spostamento di persone in fuga da guerre, povertà e persecuzioni si muove un’economia illecita miliardaria. È chiaro, quindi, che nessun migrante decide spontaneamente di diventare capitano o membro dell’equipaggio di un barcone: chi assume quei ruoli, da cui non si torna indietro, lo fa sotto minaccia o in cambio di una riduzione del costo del viaggio, spesso non avendo altra scelta.
La stessa Maysoon ha testimoniato in tribunale che fino a tre giorni prima della partenza cercava disperatamente i fondi per completare il pagamento del suo viaggio. È stata, come molti altri, vittima di una coazione: bloccata in un sotterraneo, costretta a salire su un’imbarcazione pericolosa, senza via di fuga. “Mi accusate di essere una scafista perché non ho aiutato i passeggeri a sbarcare, ma come posso essere io una scafista se fino all’ultimo cercavo di pagare per essere una passeggera come tutti gli altri?”, ha dichiarato Maysoon durante il suo processo.
Capri espiatori di un sistema che non distingue fra criminali e vittime
Il sistema legale italiano sembra però guardare con sospetto chiunque si trovi su una barca proveniente dalle coste nordafricane. Il meccanismo di individuazione dei “responsabili” spesso si basa su accuse sommarie, fatte da altri migranti sotto pressione durante gli interrogatori. Questi ultimi, temendo il rimpatrio immediato, si sentono costretti a indicare qualcuno all’interno del gruppo come il “capitano” o lo “scafista”. In un sistema dove la paura della deportazione è tangibile, diventa facile puntare il dito contro chiunque sembri avere una minima autorità a bordo. Ma questa autorità è spesso illusoria, imposta dai veri trafficanti che rimangono ben lontani dalle acque agitate del Mediterraneo.
Il caso di Madjidi, emblematico per la sua mancanza di prove concrete e per le contraddizioni nelle testimonianze, mette in luce le falle del sistema giudiziario. Come ha ribadito la sua difesa, due sole testimonianze di migranti su 77, rese in condizioni di estrema vulnerabilità, non dovrebbero essere sufficienti per condannare una persona. Eppure, molte delle persone accusate di essere capitani o scafisti vengono incarcerate senza avere la possibilità di difendersi adeguatamente, vittime di una giustizia che spesso li considera colpevoli prima ancora di processarli.
La storia di Maysoon è solo una delle tante. Dietro le sbarre delle prigioni italiane si trovano molti migranti, soprattutto giovani uomini, che non hanno mai avuto intenzione di guidare una barca vecchia e pericolosa verso le coste europee. Hanno semplicemente cercato di fuggire da una vita di sofferenze, trovandosi costretti a compiere un viaggio disperato. Eppure, una volta arrivati, è comminata loro una duplice pena: la prima è la loro stessa condizione di rifugiati in fuga, senza mezzi di sopravvivenza, senza futuro e senza diritti; la seconda è la criminalizzazione del loro ruolo di sopravvissuti fra i sopravvissuti.
Il crimine organizzato sfrutta queste persone non solo come merce da trasportare, ma anche come strumenti per celare le proprie operazioni illecite. Quando i barconi arrivano a destinazione, i veri responsabili rimangono nell’ombra, mentre coloro che hanno accettato o sono stati costretti a compiti di navigazione finiscono per essere arrestati.
Il destino degli invisibili si compie nel silenzio
L’Italia, come molti paesi europei, si trova di fronte a un dilemma morale e politico. Da un lato, è innegabile che il traffico di esseri umani debba essere contrastato con fermezza. Dall’altro, il sistema attuale rischia di punire gli stessi che dovrebbe proteggere: i migranti, persone che hanno già subito violenze e privazioni nei loro paesi d’origine. Esseri umani che hanno il diritto riconosciuto dalla legge di spostarsi verso paesi più sicuri.
Le storie di coloro che vengono etichettati come capitani o scafisti mostrano come la realtà sia molto più complessa di quanto non sembri. Gli ultimi fra gli ultimi, come Maysoon Madjidi, si trovano incastrati in un meccanismo che li vede colpevoli per il solo fatto di essere costretti a svolgere un ruolo assegnato dai veri carnefici. È essenziale che il dibattito pubblico su questi temi si apra e che venga garantita giustizia a coloro che, già vittime di sistemi disumani, rischiano di diventare capri espiatori di politiche migratorie e giudiziarie trasformatesi in atteggiamenti di rifiuto e repressione indiscriminata.