di Roberto Malini
L’Australia ha deciso: niente social per i minori di 16 anni. Una stretta senza precedenti che, con l’approvazione di una legge severa, mira a proteggere gli adolescenti dai “potenziali danni” dei social media. Multe milionarie minacciano le piattaforme che non si conformeranno. Una linea dura che riflette un problema globale e che sta trovando terreno fertile anche in altre nazioni, dalla Spagna agli Stati Uniti, fino alla Cina, che già da anni impone restrizioni rigide. Tuttavia, sorge una domanda fondamentale: è davvero questa la soluzione?
Il proibizionismo digitale, se da un lato cerca di salvaguardare l’infanzia, dall’altro rischia di trasformarsi in una battaglia persa in partenza. I giovani, i più abili a navigare le tecnologie moderne, non si arrenderanno a una norma repressiva. Lo dimostrano già i metodi per aggirare restrizioni simili in altri paesi: VPN, profili falsi, dispositivi condivisi. Più si chiudono porte, più si apriranno botole e passaggi segreti. I ragazzi non solo troveranno il modo di evadere, ma lo faranno con maggiore determinazione, lontani dal controllo degli adulti.
La vera domanda è: a cosa serve vietare senza educare? Fare leggi è relativamente semplice, soprattutto con una maggioranza parlamentare. Dire “no” è un atto immediato, ma costruire un’alternativa è ben più complesso. Educare i giovani, insegnare loro l’uso responsabile del web, promuovere campagne di sensibilizzazione e integrare nuove materie scolastiche dedicate alla cittadinanza digitale sono sfide che richiedono tempo, risorse e una visione a lungo termine. È questo l’approccio che manca, non solo in Australia, ma a livello globale.
Il problema non è il social media in sé, ma la mancanza di una guida. I giovani sono stati abbandonati in un universo digitale che cambia a velocità vertiginosa. I genitori, spesso meno competenti tecnologicamente, si sentono impotenti, mentre le istituzioni preferiscono la via della repressione piuttosto che quella della responsabilità condivisa.
La questione diventa dunque etica e culturale. Vogliamo davvero privare una generazione di strumenti che definiscono il nostro tempo? Oppure possiamo scegliere di fornire loro le competenze per utilizzarli in modo costruttivo? La chiave non è escludere, ma integrare. Non chiudere porte, ma aprire finestre di dialogo, conoscenza e consapevolezza.
L’Australia, con questa legge, non sta solo sfidando i giganti della tecnologia, ma anche l’intelligenza e l’intraprendenza dei suoi giovani cittadini. E nel farlo, rischia di perdere un’opportunità preziosa: costruire una cultura digitale che guardi al futuro, anziché temerlo.