Il destino di un’ilota

di Douaa Er Rifaiy
I Liceo delle Scienze Umane Piero Gobetti – Genova

Iniziativa “Gli studenti e la Storia”

La vita a Sparta è bella, ma non quando sei una persona senza diritti, un’ilota*. Ogni anno qualcuno di noi viene ucciso e nessuno ne paga le conseguenze. Dobbiamo sempre fingere di non avere problemi, obbedire senza lamentarci, dobbiamo sempre stare attenti a non farci notare. Ma finalmente ci siamo ribellati.

«Calliope, vieni, dobbiamo nasconderci», la voce di mia madre mi risveglia dai pensieri.
«Perché? Non è ancora giunta notte, madre. Gli Spartiati non caccerebbero mai di giorno», risposi io, confusa.
«Lo so, figlia mia, ma ci è giunta voce che vogliono cambiare strategia. Vogliono prenderci alla sprovvista: prima colpiranno i campi, poi passeranno a noi», disse, pensierosa e allo stesso tempo cupa.

Senza aggiungere altro, mi preparai, raccolsi la mia roba da terra e seguii il resto del gruppo. Noi iloti non eravamo tutti uguali. C’erano due gruppi: il primo comprendeva quelli che scappavano, quelli che venivano uccisi; il secondo, gli schiavi, quelli che lavoravano nelle case delle famiglie “ricche”. Io appartenevo al primo gruppo, ma avrei preferito di gran lunga essere una schiava piuttosto che vivere con il rischio di morire da un momento all’altro.

Noi del primo gruppo tendevamo a fare finta di appartenere al secondo. Sì, era alquanto pericoloso, ma era l’unico modo per ottenere informazioni a nostro vantaggio.

A me e Clio toccava andare in città per il nostro solito giro.
«State attente, piccole mie», ci disse mia madre, guardandoci con preoccupazione.
«Stai tranquilla, zietta. Calliope è in buone mani con me e farò attenzione che non combini qualche guaio», rispose Clio, divertita.
«Ma stai zitta!», dissi io, per poi scoppiare a ridere.

Alcune volte ero maldestra e questo poteva essere un serio problema.

Dopo aver salutato mia madre e gli altri, io e Clio ci mettemmo in cammino per la città. Ogni volta che ci andavo, avevo il cuore che martellava così forte da sentirlo nelle orecchie.

Quando entrammo nel mercato, ci ritrovammo davanti gruppi su gruppi di soldati spartiati intenti a festeggiare una loro vittoria. Tutti felici, chiusi nel loro mondo. Solo uno di loro era in disparte a guardarsi intorno, infastidito, come se non volesse essere lì, ma da tutt’altra parte.

Mi accorsi che lo stavo osservando un po’ troppo insistentemente quando lui incontrò il mio sguardo. I suoi occhi erano i più belli che avessi mai visto, tutto di lui era bello. Il suo sguardo era profondo e mi metteva ansia.

Clio mi assestò una gomitata così forte da farmi quasi piegare in due.
«Chi stavi guardando? Ricorda che non siamo qui per scambiarci sguardi dolci. Forza, su, cammina», mi disse in tono di rimprovero.

Ma prima di andarmene definitivamente, mi accorsi che lui mi stava ancora seguendo con lo sguardo. I suoi occhi erano quasi dolci, non più duri come prima.

Dovevamo unirci al secondo gruppo. Non potevamo tornare a casa fino al giorno seguente.

Quella notte non riuscii a dormire. Due occhi erano impressi nella mia mente ogni volta che provavo ad addormentarmi. All’alba mi alzai senza fare rumore, uscii dalla tenda e mi incamminai verso il fiume lì vicino. Raccolsi i capelli in una treccia e cominciai a bere, quando, all’improvviso, sentii un rumore dietro di me.

«E così sei un’ilota», disse una voce profonda e bassa.

Quando mi girai, mi trovai davanti il ragazzo del giorno prima. Lo guardai spaventata, incapace di spiccicare parola.

Lui, seccato dal mio silenzio, disse: «Che c’è? Gli dèi ti hanno tolto la lingua? O non hai proprio voce?». Mi guardò divertito.

«Ce l’ho la voce. Sei tu che fai paura», risposi.
«Ah, davvero? E sentiamo: di cosa hai paura?».
«Uno spartiato non può parlare con un’ilota, o sbaglio?».
«Non sbagli affatto, ma per te si può fare un’eccezione», disse con tranquillità.
«Potrebbero ucciderci».
«Se loro non lo vengono a sapere, perché dovrebbero ucciderci?».
«Come ti chiami?», chiesi, titubante.
«Io sono Cleon, capitano di un’unità di opliti», rispose, orgoglioso di sé.
«Io sono Calliope, un’ilota… che tu dovresti uccidere», dissi.

Stavo mettendo in pericolo il mio gruppo e me stessa, ma non so perché Cleon mi trasmetteva fiducia. Avrei dovuto stare più in guardia.

«Perché ti dovrei uccidere? Non sei una schiava?» chiese.
«Forse sì, forse no».

Non avrei dovuto giocare con lui, non potevo. Avrebbe potuto farmi fuori da un momento all’altro.

«Sei del primo gruppo… Non pensavo foste così bravi e furbi. Quanti anni hai?».
«Ne ho ventuno. Sono sopravvissuta un po’ a lungo», risposi.

Ho chiacchierato un po’ con Cleon. È stato bellissimo, stupendo. Penso di essermi innamorata. Dei suoi occhi. Della sua voce.

Quando tornai alle tende, rimasi senza parole.

Era tutto distrutto. Corpi sparsi per tutto il perimetro dell’accampamento. Corsi a cercare Clio e la trovai nella nostra tenda, con una lancia nel petto. Un colpo preciso.

Uscii dalla tenda piangendo. Ero disperata. Non avrei mai dovuto allontanarmi.

Sentii dei passi dietro di me. Non ebbi neanche il tempo di girarmi che qualcosa mi trafisse il ventre. Le lacrime scesero più abbondanti di prima.

E quando la vista si offuscò e la vita stava per lasciarmi, sentii pronunciare queste parole:

«Sei vissuta troppo a lungo, piccola mia».

*Gli iloti erano una classe di servi dello Stato a Sparta, ridotti in una forma di schiavitù collettiva e obbligati a lavorare la terra per sostenere i cittadini spartani.

Nel dipinto, iloti e spartani

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