racconto di Marcello Tagliabue
Un amico dei miei anni giovanili mi ha inviato un racconto breve, chiedendomi se mi “ricordi qualcosa”. Sì, è un testo che risveglia in me ricordi milanesi che oggi mi sembrano lontanissimi, quasi al di là dell’orizzonte della memoria. Lo ringrazio e lo pubblico su Genova Poesia. Roberto Malini
Era un pomeriggio d’autunno del 1983 a Milano e il Parco di Porta Venezia si distendeva sotto un cielo che aveva il colore biancastro del fumo di sigaretta. Le foglie, ingiallite o arrossate dall’autunno, cadevano lente, mentre Alberto sedeva su una panchina, un libro di poesie stretto sotto il braccio. Nonostante il vento leggero, la sua attenzione era rivolta altrove, lontano dalle strade rumorose, verso i pensieri che lo avevano accompagnato fino a quel punto della sua giovane vita.
Ventiquattro anni, una mente affilata come la punta di una freccia, eppure una vita incerta come la traiettoria di una foglia di platano che si stacca da un ramo. Tra il dormitorio pubblico e le mense dei frati, si sentiva un’ombra tra la folla di Milano, un poeta, un essere umano senza tempo né spazio.
Fu proprio il libro, logoro ma tenuto con cura, ad attirare l’attenzione di un uomo che passava lì vicino. Carlo, un signore distinto, dall’aria pensosa, si fermò per un attimo. “Le poesie… sono il rifugio degli spiriti inquieti,” disse, interrompendo il silenzio. Alberto alzò lo sguardo, sorpreso, ma non contrariato. Tra loro si accese una conversazione spontanea, fluida. Filosofia, il significato dell’esistenza, le sfide che l’animo umano affronta quando si trova ad interrogare il mondo. Nessuna frase di circostanza, ma solo pensieri che scorrevano, come se i due si conoscessero da sempre.
Carlo, incuriosito dalla profondità di Alberto, gli propose di continuare la conversazione altrove. “Vieni, ti offro un cappuccino e una brioche. Discutiamo ancora, ho l’impressione che tu abbia molto da dire.”
Accettare fu naturale. Si incamminarono verso una caffetteria nei pressi di Corso Vittorio Emanuele. Il brusio della città li avvolgeva, ma pareva distante, come un sottofondo remoto. Nella caffetteria, tra una brioche croccante e il calore di un cappuccino, le parole continuarono a fluire. Alberto, pur vivendo tra le difficoltà, possedeva una saggezza amara che intrigava Carlo. Era come se avesse attraversato mille mondi interiori e ne portasse ancora le ferite.
Dopo il caffè, Carlo lo condusse in un ufficio discreto, proprio in Corso Vittorio Emanuele, a pochi passi dal Duomo. “Qui conduciamo test per misurare l’intelligenza,” spiegò, “e ho il sospetto che tu possa ottenere risultati sorprendenti.”
L’ufficio era piccolo, quasi anonimo, ma curato. Le pareti erano bianche, spoglie, e sul tavolo giaceva solo una serie di fogli, matite affilate e strani diagrammi. Alberto non era mai stato attratto da simili prove, ma la curiosità lo spinse a sedersi. “Un test, un altro enigma da risolvere,” pensò. Non era il primo della sua vita, né sarebbe stato l’ultimo.
Mentre completava le figure, mentre trovava il filo conduttore tra forme e pattern, il tempo sembrava sospendersi. Le difficoltà della sua vita — il dormitorio, i pasti al refettorio dei frati — si dissolvevano in quel momento, sostituiti da una pura, semplice concentrazione.
Un’ora dopo, Carlo osservava i risultati. “Incredibile,” mormorò. “Hai ottenuto un punteggio straordinario, fuori standard. Un risultato che pochissimi hanno mai raggiunto. Quasi non ci credo”. I collaboratori di Carlo commentavano con la stessa incredulità e, di quando in quando, i loro sguardi si fissavano, altrettanto increduli, sulle scarpe sfondate di Alberto. Il giovane rimase impassibile, ma dentro di sé qualcosa si agitava. “Se sono così intelligente,” si domandò, “perché vivo come un mendicante, senza un luogo che possa chiamare casa, senza aver fatto un pasto decente o una doccia calda da mesi?”
Carlo, inconsapevole del tumulto che si agitava nell’animo del giovane, gli consegnò un invito. “Vieni in Svizzera. Ci sarà un incontro speciale per persone come te. Potresti trovare il tuo posto tra menti brillanti.”
Alberto guardò quel foglio per un lungo istante. “Grazie,” disse infine, senza tradire i suoi pensieri. Ma mentre si allontanava dall’ufficio, sentì il peso di quella carta tra le dita come se fosse un fardello insostenibile.
La notte stessa, nella sua stanza, illuminata solo da una fioca luce al neon, fissò l’invito. Avrebbe potuto cambiare tutto, forse, ma c’era qualcosa di profondamente sbagliato in quel concetto. La sua intelligenza l’aveva condotto da anni a comprendere le fragilità della società in cui viveva, ma non se ne era mai servito come di uno strumento per affermarsi in una società materialista e competitiva. La vita, con tutte le sue asperità, non si piegava alle cifre di un test. Alberto, pur soffrendo una condizione di indigenza quasi insopportabile, era consapevole di essere libero e che la libertà aveva un prezzo. Era più facile identificare l’elemento mancante in uno schema che mettere a posto le ingiustizie grandi e piccole che erano presenti ovunque intorno a lui. Con un gesto risoluto, strappò il foglio in tanti piccoli frammenti. “Non ho bisogno di dimostrare nulla,” mormorò. “Le risposte che cerco non si trovano in un test.”
Il giorno seguente, con le prime luci del mattino che filtravano dalle finestre del dormitorio, Alberto riprese fra le mani il suo libro di poesie e la sua vita così precaria. Il peso del mondo non era diminuito, ma quella scelta, così intima e personale, lo aveva liberato da un’illusione, un’opportunità che per un attimo aveva considerato allettante, ma che non faceva parte del cammino che immaginava per sé. Continuò a vivere tra i suoi studi, tra la letteratura e la filosofia, senza più il bisogno di inseguire l’ombra di ciò che la società chiamava “successo”. Era ancora un’anima libera, invisibile agli occhi dei molti, ma profondamente consapevole del proprio ruolo nel mondo.