di Roberto Malini
Quando si parla dei gruppi etnici che vivono – o cercano di sopravvivere – in Italia nonostante le condizioni di vita miserevoli, accade spesso di sentire opinioni dettate dal pregiudizio e dall’ignoranza. Vi è chi pensa che alcuni gruppi sociali o etnici scelgano – e non subiscano – una condizione di povertà e degrado, come parte di una loro presunta “cultura” e che tale cultura si nutrirebbe, in un certo senso, di privazioni, sofferenze, fame e lacune igienico-sanitarie. Se pensiamo che una simile condizione è causa di un abbassamento drastico della speranza di vita media e delle possibilità di sopravvivenza dei bambini che nascono, dovremmo immaginare l’esistenza di una cultura dell’autodistruzione, in cui l’infelicità sia preferita alla speranza e alla gioia. Vi è anche chi si spinge oltre e cerca di dimostrare che se l’indigenza non fosse una scelta, allora le privazioni annienterebbero la cultura di chi ne è vittima e, di conseguenza, non saremmo più in grado di riconoscere le radici culturali e tradizionali di chi vive in povertà.
In realtà non vi è un nesso causale fra povertà e sussistenza delle tradizioni. Se vengo insultato, la mia cultura non viene intaccata. Se vengo derubato e spogliato, il mio bagaglio di cultura e tradizione resta lo stesso. Se non ho un tetto sulla testa e mi scacciano da un luogo all’altro o mi imprigionano, non cambiano, improvvisamente, il mio retaggio, il mio sapere tradizionale, i miei legami sentimentali. La mia appartenenza a un popolo e/o a una cultura non cambia se sono ricco e potente o miserabile ed emarginato. Perché io ritrovi dignità e speranza (non cultura originaria e tradizioni) è necessario che il cambiamento avvenga da parte di chi mi riduce in povertà e mi esclude dall’accesso ai beni e ai servizi che spettano agli altri cittadini.
Contemporaneamente è auspicabile che io sia così forte e resistente da non piegarmi, da non cedere, da manifestare il mio dissenso verso chi mi rende difficile la vita per recuperare quanto mi spetterebbe di diritto, in una società che ha perso la via della civiltà. La povertà non è etnica ed è raramente culturale (lo fu per Diogene e i cinici o per i gimnosofisti; lo è – per esempio – per i Giaina), quindi deve essere sconfitta come male sociale assoluto, senza altre operazioni intellettuali…
E questo nulla ha a che vedere – perché lì spesso vertono le conclusioni di chi collega la miseria alle tradizioni di alcuni gruppi sociali o etnici – con la chiusura dei campi. Un insediamento spontaneo può essere un paradiso, in una società libera e senza povertà, senza discriminazione. Così come lo può essere, se preferito, un villaggio o un condominio.
Dipinto di Adriaen van de Venne (Paesi Bassi, 1589–1662), “allegoria della povertà”, circa 1630.