di Redazione
L’uscita di una nuova rivista di letteratura, cultura e civiltà è da festeggiare come un evento che arricchisce tutti noi. Ecco perché siamo particolarmente lieti che la rivista Agire Sociale (organo ufficiale della Fondazione Pina Alessio Onlus) sia ora una realtà. “Una luce che si accende,” scrive nell’editoriale il direttore responsabile Michele Petullà, “perché la cultura è bellezza, dà la sveglia alle coscienze, contribuisce al rinnovamento delle idee, stimola, sviluppa e migliora l’agire sociale”. Da parte nostra, siamo felici che Roberto Malini abbia collaborato con Roberto Saviano per presentare nell’articolo Isoke Aikpitanyi e la sua poesia l’opera poetica e l’esempio civile dell’autrice e attivista italonigeriana. Agire Sociale presenta, inoltre, due poesie di Isoke tratte dalla raccolta Spada, sangue, pane e seme (Lavinia Dickinson Edizioni 2013)
Isoke Aikpitanyi e la sua poesia
Spada, sangue, pane e seme, versi di coraggio e cambiamento
di Roberto Malini
Uscita nel 2013 per Lavinia Dickinson Edizioni e giunta alla terza edizione, la raccolta di poesia Spada, sangue, pane e seme di Isoke Aikpitanyi si è diffusa nel nostro paese sospinta dal tam tam (un’espressione che Isoke ama particolarmente) delle associazioni per i diritti umani, delle comunità africane in Italia, dei circoli culturali che considerano la letteratura come un potente strumento di cambiamento sociale. Il libro è stato finalista al Premio Camaiore, ha vinto il Premio Internazionale Milano ed è stato a lungo primo nella classifica “Africana” di Amazon. Isoke ha ottenuto inoltre uno dei più importanti riconoscimenti del nostro paese e nel 2018 ha ricevuto – ex aequo con Waris Dirie e Margarita Meira – il Premio Donna dell’Anno della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Sono alcune delle tappe raggiunte da lei, attivista per i diritti umani e autrice originalissima, e dal suo libro di poesie che ha portato valori letterari e civili dove servivano, dove regnavano abusi e ignoranza. Poesia della bellezza e dell’energia viva. Poesia del coraggio e del cambiamento. Poesia che mette la disumanità e l’indifferenza di fronte alle loro responsabilità. Sulla raccolta Spada, sangue, pane e seme ha scritto parole molto importanti e profonde lo scrittore Roberto Saviano.
Una bellezza rara
di Roberto Saviano
Conosco Isoke da un po’ di anni. Ha una bellezza rara. Con raro intendo non di quelle bellezze misurabili in forme, centimetri, quantità, foto. Bellezza come insieme di complessità, tracce, armonie. Isoke è una ragazza africana di trentatré anni. Nigeriana. È arrivata in Italia nel 2000 sognando un lavoro, invece le mafie nigeriana e italiana l’hanno obbligata a prostituirsi. Dopo tre anni è riuscita a liberarsi e ha deciso di non tacere. Isoke ha raccontato cosa vuol dire per lei la parola “strada” a “Quello che (non) ho”. Ora è un viso noto: scrive libri, va in tv, riesce a raccontare la sua storia e facendolo cerca di attirare l’attenzione di tutte le ragazze che vogliono lasciare la strada. Testimonia che esiste un’alternativa e con il suo esempio le invita a prendere coraggio. Isoke mi ha insegnato a comprendere l’inferno della tratta. A distinguere, da una voce al telefono, una escort d’alto bordo da una ragazza sfruttata. A capire messaggi in codice e meccanismi delle organizzazioni nigeriane. Mi ha insegnato a non temere la caduta, perché ci si può rialzare. Ma mi ha insegnato anche che per rialzarsi serve una mano. Mi ha insegnato a tenderla quella mano e a non temere una realtà che sembra remota.
Ho ascoltato un tam tam
di Isoke Aikpitanyi
Io proprio non volevo scrivere libri e andare in giro di città in città a presentarli. Quando lasciai Benin City avevo perfino perso l’abitudine di scrivere le cose più normali e quotidiane e non avevo terminato gli studi di base. Vendevo frutta e verdura con mia mamma e desideravo vendere frutta e verdura in Europa, dove, con una certa dose di ingenuità, lo riconosco, credevo che avrei potuto guadagnare davvero bene, abbastanza per migliorare la qualità della mia vita e quella della mia famiglia, di mia madre in particolare la quale, dopo che mio padre lasciò casa, provvedeva da sola alla sopravvivenza di molti figli. A Benin City come tante ragazzine e ragazzini, andavo a casa dei pochi che possedevano una tv e lì è cominciato il nostro inferno. Che in Nigeria ci fossero i ricchi e i poveri ci sembrava una cosa inevitabile, anche perché sapevamo dalle storie degli adulti, che a comandare sono sempre i violenti e che ad andare contro le loro ragioni si rischia perfino la vita. Così dentro a quella scatola magica vedevamo tutti i nostri sogni. Avevamo tutte e tutti già avuto contatti con “gli occidentali”, i “bianchi”, “ohìbo”, li chiamiamo così, e la tv ci dimostrava che loro venivano dal mondo ricco dove tutti, ma propri tutti, hanno le cose essenziali e nella lista delle cose essenziali ci sono i simboli del benessere: la casa ben arredata, l’automobile, il cellulare, la scuola, l’ospedale… Alcuni di quei “bianchi”, avevano cominciato da tempo a proporre e ad offrire alle ragazze più giovani e belle, la possibilità di raggiungere l’Europa e un numero sempre maggiore di ragazze effettivamente giunte in Europa, mandava soldi a casa e la qualità della vita delle loro famiglie migliorava. Non ci chiedevamo come vivevano quelle ragazze: alcune, in verità poche, tornavano di tanto in tanto a Benin City, piene di oro e di soldi, piccole regine che tutti rispettavano perché insegnavano ad altre ragazze come fare per concretizzare i sogni. Se l’oleodotto che porta il petrolio nigeriano in tutto il mondo, non serviva a rendere più ricco il paese e la sua gente, ma solo i capi corrotti, un altro “oleodotto”, quello che porta persone, forse avrebbe prodotto effetti diversi come quelli delle “regine” che avevano fatto i soldi in Europa. Quando toccò a me allungare le mani per tentare di acchiappare la mia parte di fortuna in Europa, ero pronta a non farmi troppe domande e ad affrontare l’avventura.
Io proprio non volevo scrivere libri, ma quel che mi è capitato in Europa è finito sui libri perché qualcuno la verità la deve pur raccontare ed è toccato a me farlo perché ho visto come un sogno si può trasformare in un incubo. Ho ascoltato un tam tam sbagliato, la voce di tante che seminavano illusioni e speranze, ho pagato caro il mio errore e adesso ho preso il mio tamburo per lanciare il mio messaggio. Lo faccio con i libri e con le testimonianze dirette. Credo che la poesia abbia una sua forza particolare. Non mi metto a scrivere poesie a tavolino: Claudio, il mio compagno (un grande attivista per i diritti umani, che è scomparso l’anno scorso lasciando un vuoto incolmabile nella società civile, ndr) , accende il registratore e mi fa parlare, mi lascia racontare, registra i nostri dialoghi; è lui che poi trascrive i nastri e quando mi dice “questa è meravigliosa” io mi sorprendo perché ho lasciato solo piena libertà ai miei pensieri. Se adesso dico che non volevo scrivere poesie dico il vero. Quel che scrivo è inconsapevole: mi sento come mio nonno che curava e salvava le persone con le erbe che raccoglieva nella foresta. Lo faceva e basta, non aveva studiato come farlo, non conosceva le proprietà chimiche delle erbe, ma i loro effetti buoni e cattivi. Io raccolgo parole e le metto insieme, poi le consumo – quelle parole – per curare me stessa e, spero, chi avrà voglia di leggermi.
Due poesie da Spada, sangue, pane e seme (Lavinia Dickinson Edizioni 2013)
Il confine
Sono in attesa
immobile al confine
oltre il quale non so.
E questa nebbia di sabbia rossa
e questo soffio di morte calda
si ferma con me
oltre non può.
Altri giungono
in corsa
o arrancando
e guardano me
per capire se son io
che dirò loro
vai.
Vai oltre il confine.
Ma anche io sono in attesa
e ho più paura di altri
di questo confine
oltre a tutti i miei infiniti confini.
A un gesto improvviso
di una donna in rosso
tutti alzano al cielo
il loro foglio bianco
alcuni lo hanno sgualcito
altri lo hanno serbato integro.
Lasciate quel foglio.
Oltre il confine
nessun foglio è richiesto.
Lasciate i vostri fogli
e passate il confine
di qua sarete uomini e donne
di là resteranno selvaggi.
E cosa se ne potranno mai fare
di tutti i vostri permessi di soggiorno
che il vento agita al cielo
coriandoli di un carnevale
nel quale tutti indossiamo l’abito del clandestino
che è in noi.
E oltre il confine
l’unica domanda
chi sei
presume una sola risposta
un uomo una donna.
Ma il bimbo nato sul confine
a quale mondo appartiene
da quale tribù sarà cresciuto?
Io come lui appartengo al mondo
e non ho fogli
non servono
oltre il mio ultimo confine.
Lettera a Wole Soyinka
L’altra notte l’incubo è tornato:
di nuovo ho sognato di essere
africana, nera e sola
in mezzo alla strada più polverosa
ed insanguinata del grande continente
il cui nome non è Africa ma Alkebu-Lan
patria di tutti noi, madre dell’umanità
casa degli dei, dimora del mago Akara-Ogun.
Di nuovo ho pensato a te, Wole Soyinka,
al tuo migrare e ai tuoi ritorni ad una patria
dalla quale non sei mai davvero lontano.
Nella foresta di Akongawua
scena, territorio e Olimpo del tuo narrare
gli spiriti maligni mi hanno aggredita
quasi io fossi la paladina del bene
e non questa donna sbigottita che sono.
L’austerità del tuo volto, la stretta decisa della tua mano
l’incedere sicuro del tuo passo
ed i tratti armoniosi del tuo scrivere
non sono diversi dal silenzioso
e inesorabile procedere del fiume Niger
dalle onde di sabbia di un deserto che regala poesie e miraggi
e dai tratti disegnati sul viso delle streghe di Bini
che danzano un voodoo migrato con gli schiavi.
Tu che non hai paura di nulla
men che meno dei tuoi miti e dei tuoi demoni
mi hai portata in una dimensione che ignoravo
in un mondo di cui a volte ho paura
perché tutti noi abbiamo ancora assurdamente paura
di chi è diverso da noi.
Così l’altra notte l’incubo è tornato e più non sapevo
scrivere, parlare, cantare
ero straniera nella mia terra, straniera al mondo
…ero nera.
Al risveglio l’incubo si è trasformato in vergogna:
nulla era cambiato
ero ancora una me stessa indecorosamente legata
al mito del poter aiutare la mia terra e le mie genti
contro la genìa dei dominatori
degli evangelizzanti, dei curatori
e dei lenitori delle sofferenze umane.
Non posso non so scrivere poesie
non posso non so scrivere
ciò che tu consideri davvero poesia
ma ti ascolto
ascolto la voce di Alkebu-Lan.
E sono nera
africana, nera e sola.
Nelle foto, Isoke Aikpitanyi; la copertina della sua raccolta di poesie Spada, sangue, pane e seme