Roberto Malini: «Ecco le poesie dedicate ai rom e sinti nella mia raccolta “Il principio di sovrapposizione”»

di Roberto Malini

Il mondo dei rom e sinti, la loro cultura e la condizione di emarginazione in cui sono relegati ancora oggi sono temi presenti nella mia più recente raccolta di poesie, Il principio di sovrapposizione (prefazione di Michael Eisenberg, Lavinia Dickinson Edizioni 2021). La gente rom e sinta appare spesso nei miei versi. Quasi dieci anni fa ho pubblicato un libro insieme a Paul Polansky, Il silenzio dei violini (Edizioni Il Foglio, Piombino 2012), interamente dedicato alla vita, alla storia, alle tradizioni dei rom e sinti. Il tema di alcune liriche è il Samudaripen, lo sterminio di un milione e mezzo di rom e sinti perpetrato dai nazisti e dai loro alleati durante la Seconda guerra mondiale. Alcune delle vicende che racconto derivano dalle testimonianze da me ascoltate presso famiglie rom romene che hanno ancora memoria dei loro cari deportati in Transnistria e morti di stenti in un campo di concentramento sul fiume Bug. Altre poesie parlano dei rom e sinti che ho conosciuto nella mia vita e che in molti casi ho difeso – insieme agli altri attivisti del Gruppo EveryOne, di cui sono fondatore e copresidente – da gravi forme di persecuzione istituzionale nel nostro paese e in altri paesi dell’Unione europea. Alcuni di loro ci hanno affiancati nelle azioni civili; altri sono diventati nostri cari amici. Il grande studioso rom Ian Hancock ha scritto la prefazione per Il silenzio dei violini, mentre ne ha scritto l’introduzione l’allora parlamentare europea rom ungherese Viktória Mohácsi. Quando scrivevo Il silenzio dei violini e il successivo Dichiarazione (Edizioni Il Foglio, Piombino 2013), un altro libro di poesie che contiene versi dedicati al popolo rom e alla sua dolorosa condizione, dovevo contemporaneamente affrontare un periodo di pesante intolleranza che attraversava il paese come un’ondata virulenta, rendendo assai difficile ogni azione umanitaria. L’Italia di oggi non è cambiata, sotto il profilo della discriminazione e delle politiche repressive nei confronti dei rom e sinti. Così, mentre esce il mio nuovo libro, sono ancora impegnato a difendere i diritti fondamentali di alcune famiglie emarginate, in un clima sempre ostile. E nel nostro paese si verificano ancora a un ritmo serrato sgomberi di insediamenti rom e sinti nonché altri provvedimenti ingiusti, fra i quali l’adozione disinvolta di fogli di via e una sequenza di abusi giudiziari. Cosa c’entra tutto questo con la poesia? C’entra, perché la poesia è uno dei più potenti strumenti di lotta nonviolenta. O almeno, lo è nel mio caso, perché la mia poesia dà e darà sempre voce di chi è vessato e costretto al silenzio, all’invisibilità, ai margini di una società sempre più indifferente. Contemporaneamente il mio lavoro di poeta, che è parallelo a quello umanitario, è opera che dà grande importanza al valore della testimonianza. Testimonianza del Samudaripen, della Shoah, così come delle sopraffazioni che avvengono nel nostro tempo intorno a noi. Le vicende degli ultimi; delle famiglie forzate a compiere continue peregrinazioni verso il nulla a causa delle decisioni assunte da autorità che hanno perso la via del diritto. Le vicende dei migranti costretti ad affrontare viaggi dolorosi e spesso fatali per sfuggire a crisi umanitarie intollerabili e cercare luoghi sicuri i cui rifugiarsi. Memoria e testimonianza, perché la poesia civile è simile a uno scavo archeologico, in cui è necessario raggiungere diversi strati sepolti per identificare poche tracce di civiltà, quasi sempre fatte a pezzi da violenze e distruzioni, alla ricerca di simboli che rappresentino una speranza di progresso civile. E alla fine, come scrisse il grande poeta russo Osip Mandel’štam «Gli strati profondi riemergono in superficie» rivelandoci che il presente è quasi sempre un prodotto del passato. Qui di seguito, tratte da Il principio di sovrapposizione, alcune poesie dedicate ai rom e sinti, al valore della Memoria e a quello della solidarietà.

Stanlio e Ollio a Berlino

Anton giunse a Berlino da Costanza, Romania,
con la sua famiglia.

Era un ragazzo di vent’anni; ora ne ha trenta.

Sua madre Lenuta leggeva la mano
nelle vie della città e tutti i rom dicevano
che era molto brava, come sua nonna,
come la sua bisavola.

I bisnonni di Anton erano morti in Transnistria,
uccisi dai nazisti
in un campo di concentramento
sulle sponde del fiume Bug.

La loro figlia Georgeta
si era salvata miracolosamente,
perché giocava nel bosco
insieme ad altri bambini
quando i soldati vennero a prendere
la sua cumpania.

Fu allevata da una zia,
che le insegnò come vivere
praticando la chiromanzia.

Georgeta poi trasmise l’arte
alla figlia Lenuta.

Ora in Germania non è più permesso
alle Romnì di leggere il futuro
attraverso le linee delle mani,
i tarocchi o i fondi di caffè.

Così sua madre provvede ai bisogni
della famiglia facendo il manghel,
come suo padre, come le sorelle.

Anton, invece, è un artista di strada.

Nei panni di Oliver Hardy
intrattiene i passanti,
nelle vie del centro di Berlino,
con Danciu, suo cugino,
magro come un’acciuga,
che impersona Stan Laurel.

Ogni tanto tendono le bombette
per raccogliere le offerte degli astanti.

È vero, guadagnano qualche moneta,
ma per loro non c’è niente
che abbia più valore della gioia
che trasmettono al pubblico
quando, camminando sul posto,
inseguono un traguardo immaginario,
fingendo di ostacolarsi a vicenda,
sgambettandosi e colpendosi con le bombette.

Ma nessuno supera mai l’altro,
perché i loro passi hanno la stessa velocità
del tempo che passa.

Durante i loro spettacoli
Anton e Danciu non parlano mai,
ma nei loro cuori cantano:

«Splendi, splendi, luna di settembre,
in alto nel cielo;
non ho avuto nessun amore
da gennaio, aprile, giugno o luglio.

Nel tempo della neve, non avrò occasione
di restare all’aperto e amoreggiare;
perciò splendi, splendi, luna di settembre,
per me e la mia ragazza».

I testimoni

I testimoni,
il loro sguardo muto
prima delle parole
che ricordano il sangue,
il gas, il fuoco,
la strage
e la sopravvivenza,
entrambe dure
come cemento armato.

I testimoni
e il tempo,
coscienza dell’inverno
che fra i tigli selvatici
ritorna, indifferente.

Buio

Buio. Paesaggio d’ossa.

Le donne infagottano le ultime cose.

La più anziana canta una nenia
ronzando con la bocca chiusa.

Fuori dalle baracche i molossi abbaiano.

Dal cielo piove fuliggine.

Il pianto dei neonati
si allontana.

L’ultimo treno urla sui binari.

Quando arriva il silenzio
è come un calcio in faccia.

I nuovi partigiani

L’odio è come vapore nell’aria.

Un fumo che avvelena i cuori
e distrae le coscienze.

Oltre la cortina grigia e narcotica,
però, una resistenza è in atto
ed è fatta di sdegno,
di voglia di cambiare
e contemporaneamente
di solidarietà, di amore.

Li incontriamo ogni giorno,
i nuovi partigiani
e sono donne, uomini, ragazzi
che non si rassegnano
alla malevolenza
né all’indifferenza.

Imbracciano armi incorporee
il cui legno è sentire,
il cui acciaio è creare,
il cui piombo è la parola vera.

Se conoscessimo la proporzione
delle forze in campo
forse potremmo supporre
che alla fine vincerà il bene
e assorbirà i miasmi intorno a noi
come una candela mangiafumo.

Ma del popolo umano
non sappiamo quasi niente
e quello che possiamo fare
è solo darci il cambio
quando è il nostro turno
sul muro.

Sul muro, pronti a combattere
con il nostro legno,
il nostro acciaio
e il nostro piombo,
fino alla fine.

Fino alla fine del mondo.

I cappelli dei testimoni

I cappelli dei testimoni, alla loro morte,
si nascondono in alto negli armadi,
si raccolgono nell’oscurità
dei ricordi, si attenuano,
attendono.

Era come Gesù, ma con più rabbia

In morte di Marcello Zuinisi (Firenze, 16 gennaio
1968 – Melfi, 25 novembre 2020)

L’amico dei poveri è morto
e adesso ci manca la follia del suo amore.

Sentinella di case occupate e baracche,
di roulotte e vecchi camper,
era come Gesù, ma con più rabbia.

Ora che la sua lampada si è spenta
ci mancano i suoi cartelli scritti a pennarello,
la sua chitarra piena di spine,
il lamento dei suoi diavoli blu.

Ci manca la sua passione,
quel fuoco che hanno solo i martiri e i giusti
e sa bruciare l’indifferenza.

Raccogliamone una scintilla
se vogliamo ricordarlo
e teniamola viva in noi.

Il 25 novembre 2020 è morto Marcello Zuinisi, difensore dei
diritti umani che ha dedicato l’intera esistenza alla difesa delle
famiglie rom indigenti e perseguitate. Marcello e io abbiamo
condotto insieme tante azioni umanitarie e abbiamo tenuto
reading di poesia, musica e diritti umani. Mi accompagnava alla
chitarra con grande partecipazione, perché nella poesia, nell’arte
trovava quel mondo ideale che sognava, un mondo di gente libera,
uguale e solidale.

Clochard

Quando attraversi la città
li vedi e non li vedi con occhi distratti
come fossero ombre nel paesaggio.

Non ti chiedi cosa facciano dintorno
e perché siano rannicchiati nel silenzio.

Non vuoi, ma non potresti neanche immaginare
le loro storie e forse non ti importa di sapere
che sono eredi di un’umanità libera.

Se un giorno, uscendo dall’indifferenza
ti accorgessi di loro, guardali.

Guardali con simpatia,
anche se rappresentano
la tua fragilità,
il castello di carte delle tue sicurezze,
la volatilità del tempo,
dei rapporti umani,
di quello che possiedi
e di quello che pensi di essere.

Loro sono te,
lo specchio del tuo cuore
rannicchiato nel silenzio,
il tuo respiro mutevole,
la tua generosità,
le tue mani che afferrano
momenti di fuoco e di ghiaccio,
la tua paura e il tuo coraggio.

E tu… sei loro quando contempli
la morte e la vita con la stessa pazienza,
quando ti senti a casa in ogni posto,
quando parli o canti da solo
per non soffrire il tempo.

Sei loro e come loro
non puoi fermarti in un luogo,
perché avverti che sono già sulle tue tracce
odio, paura e codardia,
con gli occhi magnetici
e le uniformi scure
che fanno abbaiare i cani.

Ma non temere,
perché lungo il cammino che prima non vedevi
i tuoi piedi diventeranno sempre più leggeri
e le paure di ieri si scioglieranno
come brina nel mattino
quando in mezzo alle ombre
confuse nel paesaggio
ci sarà anche la tua.

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