Lingua, cultura e poesia yiddish, testimoni dell’ebraismo in Europa
di Roberto Malini
«Lo yiddish non ha ancora detto la sua ultima parola. Contiene tesori che non sono stati ancora rivelati agli occhi del mondo. Era la lingua dei martiri e dei santi, dei sognatori e dei cabalisti, ricca di umorismo e ricordi che l’umanità non dimenticherà mai. In senso figurato, lo yiddish è il linguaggio saggio e umile di tutti noi, l’idioma dell’umanità sospesa fra paura e speranza».
Isaac Bashevis Singer (trad. Roberto Malini), dal Discorso per il Premio Nobel, 8 dicembre 1978
Vi è chi afferma, anche fra gli studiosi, che lo yiddish (in ebraico: ייִדִישׁ), sia una lingua morta. È un’opinione maturata in base alla constatazione delle distruzioni e dagli stermini avvenuti durante la Shoah – in cui almeno sei milioni di ebrei e la loro cultura furono quasi annientati – e le purghe staliniane. In quelle immani catastrofi lo yiddish, lingua degli ebrei orientali, patrimonio vernacolare dei poveri fino alla fine del XIX secolo, quando fiorì la sua grande letteratura, si avvicinò al baratro dell’estinzione. Ma sopravvisse. Lo yiddish, scritto nei caratteri dell’alfabeto ebraico, ha radici nella cultura degli ebrei aschenaziti provenienti dalla Francia e dall’Italia settentrionale, che nel X secolo si stabilirono nella valle del Reno. La loro tradizione si diffuse ampiamente nell’Europa centrale e orientale, tanto che all’alba della Prima guerra mondiale lo yiddish era parlato da circa undici milioni di ebrei. Le persecuzioni del XIV secolo costrinsero numerose comunità ebraiche a spostarsi ancora più a est, nelle aree che oggi fanno parte della Polonia e della Lituania, originando quello che oggi definiamo come yiddish orientale, in cui si avvertono influenze delle lingue slave. All’inizio del XIX secolo la migrazione degli ebrei verso gli Stati Uniti condusse la lingua yiddish a stretto contatto con la cultura anglofona. Nella seconda metà del secolo fu pubblicata la prima grammatica yiddish. Prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale, molte comunità ebraiche che parlavano yiddish raggiunsero la Palestina, terra in cui sarebbe sorto lo Stato di Israele. Lì la “lingua madre” fu a lungo in ballottaggio con l’ebraico come possibile lingua nazionale. Prima dell’avvento del nazionalsocialismo, delle leggi razziali e dell’Olocausto, almeno due terzi della popolazione ebraica mondiale parlavano yiddish. Dall’XII al XVIII secolo la letteratura in quella lingua comprendeva soprattutto commentari religiosi e pochi testi di narrativa. Dalla fine del XVIII secolo, per altri cento anni i racconti chassidici e le storie di Nachman di Breslov dominarono la letteratura yiddish. Tuttavia, dal 1864, apparve l’opera di Mendele Moicher Sforim (Kopyl,1836 – Odessa, 1917), considerato il padre della letteratura yiddish moderna insieme a Sholem Aleichem (Perejaslavl, 1859 – New York, 1916) e Isacco Leyb Peretz (Zamość, 1852 – Varsavia, 1915). L’opera di Sholem Aleichem in particolare ebbe una straordinaria diffusione, non solo nel mondo ebraico, divulgando attraverso romanzi e racconti la vita delle comunità yiddish nei piccoli centri dell’Europa dell’est, promuovendo una visione a volte idealizzata dello shtetl, il villaggio ebraico. Gli shtetl dell’Europa orientale, in realtà, erano insediamenti in cui l’autorità costituita relegava le comunità ebraiche, ai margini delle città. Essi divennero tuttavia il simbolo stesso della vita degli ebrei aschenaziti, discendenti dalle prime comunità ebraiche stanziatesi nella valle del Reno in epoca medievale. «Si può portare un ebreo fuori dallo shtetl – scrisse Sholem Aleichem – ma non si può portare lo shtetl fuori da un ebreo». Fra i numerosi rappresentanti della letteratura yiddish moderna è importante ricordare Itzhak Katznelson (Karėličy, 1886 – Auschwitz, 1944), Kadye Molodowsky (Bjaroza, 1894 – Filadelfia, 1975), Isaac Bashevis Singer (Leoncin, 1903 – Miami, 1991), che nel 1978 fu insignito del Premio Nobel per la Letteratura, Yehiel De-Nur (Sosnowiec, 1909 – Tel Aviv, 2001) e Abraham Sutzkever (Smarhon’, 1913 – Tel Aviv, 2010). Katzenelson e Sutzkever sono considerati fra i più grandi poeti dell’Olocausto. Anche il pittore Marc Chagall (Lëzna, 1887 – Saint-Paul-de-Vence, 1985) scrisse poesie in yiddish, mentre l’artista Jacob Vassover (Łódź, 1926 – Tel Aviv, 2008) ebbe il merito di rappresentare in una notevole serie di dipinti a olio (di cui un nucleo consistente e significativo è conservato presso il Thesaurus Memoriae della Cittadella della musica concentrazionaria di Barletta) la vita negli shtetl, sia per osservazione diretta, negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, sia a rappresentazione dell’immaginario tratto dai romanzi e dai racconti di Sholem Aleichem. Quando ci si avvicina alla storia dello yiddish, è inevitabile chiedersi quante persone lo parlino ancora oggi, dopo lo sterminio degli ebrei in Europa e la scelta dell’ebraico quale lingua nazionale di Israele. È innegabile che lingua e letteratura yiddish abbiano vissuto, dopo la Seconda guerra mondiale, una vera e propria rinascita, promossa dai suoi grandi autori. Attualmente vi è un numero di persone che parlano yiddish compreso fra seicentomila e un milione, di cui almeno il settantacinque per cento è suddiviso equamente fra Israele e Stati Uniti.
Continua su Poesia di Luigia Sorrentino, primo blog di poesia della Rai
Nella foto, Sholem Aleichem