Laboratori virologici e ricerca nucleare: è necessario che operino alla luce del sole

di Roberto Malini

Pesaro, 4 maggio 2020. Nel settembre 2019 in Siberia si è verificata un’esplosione nel laboratorio di ricerca biologica dove sono conservati alcuni degli unici campioni di virus del vaiolo rimasti al mondo. L’incidente non ha provocato la diffusione del virus, ma ha evidenziato come siano pericolosi questi centri istituzionali in cui “scienziati pazzi” giocano con il futuro dell’umanità. Il laboratorio di Wuhan non è l’unico in Cina, mentre ve ne sono numerosi qua e là per il pianeta, Italia compresa, alcuni dei quali sono monitorati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, come quello di Wuhan, altri no. Nei laboratori non si opera solo attraverso l’ingegneria genetica, ma anche riproducendo e accelerando le mutazioni “naturali” dei virus, in organismi animali. La pandemia in corso induce il mondo a interrogarsi sui laboratori virologici e sul pericolo che costituiscono; ci si chiede se gli effetti positivi siano nei fatti superiori ai pericoli che comporta una ricerca che non sempre segue protocolli etici. Ci si chiede quali agenti patogeni esistano, all’interno delle mura di tali centri e cosa accadrebbe se sfuggissero al nostro controllo. Le istituzioni rassicurano la società globalizzata, così come hanno fatto e continuano a fare riguardo alla ricerca nucleare e alle sue finalità belliche. È fondamentale che la società civile internazionale abbia voce su questi temi o è certo che prima o poi l’umanità non riuscirà a mettere una “pezza” sugli errori commessi e si troverà a fronteggiare quell’ipotesi che nel linguaggio militare è definita con l’acronimo MAD, “Mutual assured destruction” (“distruzione reciproca assicurata”).

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