di Roberto Malini
Lorenzo Conzatti, un poeta che possiede il dono del ritmo. Le sue poesie hanno una marcata musicalità che ricorda il rap, certe sonorità del blues e anche – sembra un paradosso, ma non lo è – la poesia giambica. Sceglie le parole secondo il loro contenuto sonoro e le unisce in composizioni che ti cantano nella testa mentre le leggi. I suoi versi sono ricchi di immagini vivide, narrano storie e toccano sempre corde emotive. L’uso delle metafore è misurato e la costruzione dei versi efficace, coinvolgente: un flusso di testo che scorre alla velocità dell’emozione e regala al lettore una suggestione magnetica, capace di avvincerlo e farlo vibrare a livello sensoriale. “Sono nato a Nomi, paese al centro della Vallagarina in Trentino Alto-Adige,” mi scrive l’autore. “Grazie a mio nonno materno ho sviluppato un interesse sempre crescente per la lettura, tanto che all’età di tre anni ho iniziato a covare il desiderio di imparare a leggere più in fretta degli altri bambini. Le prime lettere apprese hanno costituito nel mio percorso un’autentica folgorazione, che mi ha portato ad iniziare a scrivere i primi componimenti poetici tra i sei e i sette anni. Ciò che mi spinge a creare è il rapporto che ho costruito nel tempo con la scrittura, compagna che mi è stata accanto quando brancolavo nel buio. Il mio stile è stato decisamente influenzato dal rap, genere musicale al quale mi sono avvicinato intorno ai quattordici anni, arrivando poi a scrivere canzoni a diciannove. L’esperienza in questione mi ha aiutato a curare in maniera maniacale la metrica, conferendo più musicalità ai miei scritti”. Genova Poesia presenta con piacere tre poesie di Lorenzo Conzatti.
Cercatore di luce
Scruto il firmamento dalla pietra che costituisce l’isola a me cara,
approfitto del momento per ritrovarmi nelle profondità della sera.
Le cicale propongono canti dimenticati, antichi nei piccoli strati,
la valle luccica e svela reperti scoperti sulle pareti rocciose locali.
E il luogo in cui vivo pare un fondale marino inaridito dai dubbi,
che io stesso coltivo verso un genere umano che si ciba di incubi.
Mentre il dolore corrode lo spirito, non basta l’affetto a fermarlo,
al pari del tempo che scava dentro, tramuta il sincero in bugiardo.
Sai spesso lo sguardo rifiuta la purezza perché ricoperta di stracci,
sposa l’apparenza, che giunge su un cocchio dorato ad ingannarci.
Le stelle mi intimano di avere coraggio, in un’orchestra di violini
abbraccio l’uguaglianza, lei mi ringrazia e non risparmia i sospiri.
Dice che la discriminazione viaggia a braccetto con l’intolleranza,
insinua l’odio nelle persone, credendo che si distinguano per razza.
Brandisco la penna per richiamare un concetto di bellezza disperso,
in cui l’essenza delle cose prevale, un soffio di pace nell’universo.
Miraggio cremisi
Ricordo gli anni del dolore struggente in cui ti incontravo pensoso da dormiente,
mi consolavi e mi abbracciavi, sussurrandomi che avrei dovuto trovarti solamente.
Mi addormentavo e ti scorgevo in una landa di pietre, teatro dei nostri appuntamenti,
la tua chioma cremisi divenne la cornice dei sogni che ci rendevano onnipotenti.
Mentre durante il giorno, vivevo una guerra tra indifferenza ed avversione,
all’imbrunire mi offrivi una scialuppa per navigare tra utopia ed illusione.
Un ventennio asettico e sgualcito, rovinato al pari dei libri che consumavo,
non comprendevo mai se fossi reale o sagoma di un miraggio che bramavo.
Mi perdevo nel fascino del pallone, anche qualora non potessi giocarci,
perché siamo umani impavidi e puntiamo le vette che possono scottarci.
E trascorrevano autunni, inverni e primavere nei quali osservavo i voli migratori,
l’anima ansimava e sanguinava, mi cibavo di forti sensazioni per rimarginare i fori.
Poi ti ho riscoperta ed eri fulmine, immediata e pungente come scariche elettriche,
panacea dei mali che si poggia sulle labbra, ma rivela retrogusto di fiele sulle retine.
Ho l’arcobaleno nell’iride, tempesta di immagini indimenticabile e indescrivibile,
spettro etereo e terreno che mi trasmette quando cercarti e idealizzarti dalle pupille.
Se ti racconti non resisto al tono assonnato, impersono Ulisse davanti alle sirene, questa melodia è libertà e oppressione insieme, impensabile spezzarne le catene.
Mi rapisci e mi commuovi, incidendomi emozioni nuove direttamente sulla carne,
riflesso femminile del vecchio me stesso che mi soggioga se voglio beneficiarne.
Tu sei ammaliante, vero anello mancante tra l’odio e l’amore che respiro:
sei oscurità accecante che mi trascina a strapiombo sul burrone del destino.
La matita mi indicò i passi
La matita accarezzava il foglio mentre la osservavo roteare sulla punta,
raccontava storie tenere e amare, con il graffio che era la sua impronta.
La matita diventava la mia migliore amica con stridii nella notte tarda,
la telepatia con la quale mi parlava accendeva la voglia di impugnarla.
La matita mi indicò i passi, quelle lettere che tracciavo in modo goffo
sarebbero rimaste il nostro patto di sangue nel fallimento e nel trionfo.
La matita crebbe tremolante tra le dita insicure che avevo da bambino,
disegnava le sagome dei sogni in un tratteggio incerto come il destino.
La matita non mi lasciò neanche quando si ruppe la campana di vetro,
i fantasmi del passato si mescolarono ai drammi in un calderone tetro.
La matita captava l’umore di color antrace che mi ghermiva da preda,
sapeva toccare le corde dell’anima tale a un musicista con l’arpa tesa.
La matita poi si sentì tradita, decisi di accantonarla e di abbandonarla,
una voce interiore mi logorava, così conobbi il mostro della mancanza.
La matita ora è un’estroflessione di me, ne percepisco il cuore in cura:
pulsa per tutti coloro che sono soli, li disseta alla fonte della scrittura.
Dipinto in IA e pittura digitale di R. Malini