Progetto “Siamo realisti!” – “Forse la notte a Genova” di Irene Alberti

un progetto di Daniela Malini

Progetto “Siamo realisti!”: un lavoro nato in seguito all’incontro di una classe V del Liceo Artistico Klee Barabino con la letteratura realista. Accanto ai protagonisti del naturalismo francese come Gustave Flaubert ed Emile Zola, i ragazzi si sono soffermati su alcuni autori italiani tra cui Matilde Serao. Alcune pagine del reportage “Il ventre di Napoli”, sono apparse ai ragazzi quanto mai attuali. Si è pensato di proporre agli studenti di scrivere un reportage sulle contraddizioni della loro città o di un luogo, magari degradato, che conoscono. Qui di seguito, il testo di Irene Alberti, “Forse la notte a Genova”. Daniela Malini, docente e scrittrice

Forse la notte a Genova

di Irene Alberti

Molti scrittori, poeti e cantanti si sono affaccendati a descrivere Genova, la bella, la Superba, ma delle loro opere non ne ho mio malgrado letto alcuna se non per caso, o di sfuggita. Non potranno, per quanto belle, le parole mai eguagliare il sentimento che serbo nel cuore per la mia città, né aggiungere, credo, cosa alcuna alla visione perfetta che in me evoca lei, Genova. Le mie orecchie non sono tuttavia sorde agli squarci di conversazioni carpiti ora da un’anziana trattenutasi di fronte al fruttivendolo, ora da un giovane che mendica accarezzando distrattamente il suo cane, o da uno stizzoso compagno di classe tra i banchi di scuola. Pare, si direbbe da codeste lamentele, che giungono a me come pigri, antipatici piagnistei, che si viva oggi forse o da sempre in una città in malora, di cui parlar male e con disappunto, la cui sporcizia e trasandatezza suscitano orrore in chi si appresta a percorrere il fitto labirinto di vie e vicoli del centro storico. Ci si scandalizza, con la più passionale e viva repulsione per la visione fugace di un topo che si tuffa in un tombino, per il vago aleggiare del pungente odore d’urina e di pesce, ci si indigna per gli schiamazzi di bambini color caffè che attraversano ridendo le vie, che non sono mica le loro, così dicono, così pare. Le madri giovani e dalle belle mani brune e sottili li seguono avvolte in vesti sgargianti e sfarzosamente decorate, il capo talvolta celato da stoffe curiose, introvabili nei grandi magazzini. Per loro non ci sono che sguardi di sospetto e parole maliziose sussurrate a mezza voce, sono parte integrante del tragico quadro che gode a dipingere con meschina fantasia un cittadino qualunque. Mi chiedo, signori: siete forse immuni alla bellezza? Lasciate, vecchine inquiete e giovani nevrastenici che vi mostri ora, nella forma più coesa possibile, questo quadro dipinto invece da mani romantiche e forse un poco inesperte delle cose del mondo, lasciate che vi dipinga ciò che a me si mostra per le vie di una città dal fascino senza tempo, che incantò prima di me scrittori, poeti, cantanti e sognatori. Genova, vedete, il suo cuore se non altro, è percorribile attraverso una miriade di piccole vie, i caruggi, signori, uno stretto intrico di vene sottili e palpitanti che, proprio dalla malora che accusate, traggono un fascino senza tempo, dove vediamo ribollire vivaci tradizioni antiche e nuovi esotici costumi. Per i vicoli stretti, sporchi e vagamente maleodoranti risiede un fascino sovrumano, capace di muovere e sciogliere un cuore. Proprio là, dove palazzi antichi e a tratti fatiscenti ospitano vecchie botteghe e negozi, la mattina presto, nella luce rosa e d’oro dell’alba, potete scorgere un anziano pescivendolo tirare su la stessa serracinesca cigolante che ha levato ogni dì per mezzo secolo, lui, e sotto la luce dorata guizza ora come in un sogno, ai margini della vista, il bel pescespada che l’anziano si accinge a esporre, tanto fiero e rilucente nell’aurora da sembrare vivo, fremente. La vita, all’alba, si allarga lenta per le vie come una chiazza d’olio e, a seconda di quelle che vi capiterà di percorrere, incrocerete persone di ogni età, dai tanti colori della pelle, tratti e costumi quanti ce ne sono al mondo e che, all’apparenza perlomeno, risiedono in armonia fianco a fianco nei piccoli appartamenti dalle persiane verdi, di palazzi molto alti che danno su altri palazzi, gremiti, spesso senza ascensore, i bei gradini d’ardesia consumati dal peso dei passi e degli anni. L’acqua torbida del porto scintillerà nella luce dorata dell’aurora e banchi di pesci orribili dalle grandi bocche spalancate guizzeranno giocondi sulla superficie, in attesa di un pezzo di pane o di focaccia che un vecchio lancerà loro distratto, senza fermarsi, respirando la brezza salmastra sulla quale si librano gabbianelle e minacciosi gabbiani reali, pronti ad azzuffarsi coi pesci per aggiudicarsi la magra colazione. Signori, avete mai trascorso la notte a girovagare, come in sogno, per il porto? Nelle ore più tarde, le chiatte si costellano di pescatori silenziosi. Penserete con orrore, credo, a quei pesci avvelenati. Ma con che esultanza risuonano le voci di quegli uomini nella notte silenziosa. Gridano “Orata! Branzino!”, forse tutti poveri diavoli illusi, ma vivi… Forse, la notte, avrete visto tristi figure avvolte in coperte lacere e consunte, rannicchiate sulle panchine, ma ecco che sorge il sole e alcune figure tornano ad essere felici, a volte, giovani dal sorriso spensierato e dagli occhi saggi che fanno roteare bastoni infuocati a un semaforo per una moneta o due… Le prostitute, agli angoli delle viuzze, sono talvolta belle giovani e brune, talvolta grinzose e cadenti, le accomunano gli occhi tristi le labbra dipinte ma anche un certo sorriso tanto bello quando, riunite in capannelli senza niente da fare, chiacchierano fumando lunghe sigarette.. In questa città tinta d’oro, regna sovrano il clangore metallico dei container posati da grandi gru chissà dove; in lontananza, lo stridio acuto dei gabbiani, l’odore di focaccia appena sfornata e frittura di pesce. Al parco giochi, gremito fino a tarda notte, si rincorrono bimbe dalle trecce gialle, bambini scuri come il caffè, bambine avvolte in bei sari rossi. Le loro grida si fondono con lo stridere dei gabbiani. Vedete, il topo e lo scarafaggio, che vi fanno tanto orrore da farvi ingiuriare sulla vostra bella città, non sono che vita, tanto come quei bambini, quei gabbiani, quanto il vecchio che tira su la sua saracinesca. E io amo il topo e lo scarafaggio, poiché amo la vita che scorre come sangue pulsante nelle piccole, delicate vene di una città che pare magica e senza tempo, una fiaba. A volte temo che non mi basterà una vita per conoscerla e voi che a stento ne cogliete la bellezza e perpetuate le vostre estenuanti lamentele forse dovreste tacere, e cominciare a guardare, signori, un po’ più col cuore, un po’ meno con la forma. A quel punto, vi auguro dal cuore, amerete anche le minime crepe della nostra Superba.

Dipinto di Andrea Figari

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